La linea ufficiale del Pd è: no ai referendum, Salvini li usa solo per intralciare le riforme in discussione.
Ma è un no cauto, che sorvola sul merito dei quesiti limitandosi a contestare lo strumento e - soprattutto - il ruolo del capo della Lega. La cautela non è casuale: al Nazareno sanno bene che una nutrita e crescente pattuglia di dem non solo condivide molte se non tutte le richieste di abrogazione, ma è anche convinta che lo strumento sia utile, e che la pressione referendaria (Salvini o non Salvini) possa diventare un'arma preziosa contro lo stolido ostruzionismo dei 5 Stelle, asserragliati nella loro trincea giustizialista contro la riforma Cartabia e in difesa dei loro colpi di mano contro la prescrizione. Senza contare che un'adesione massiccia dei cittadini ai quesiti, con il solo Salvini a cavalcarli, renderebbe ancora più difficile restare attestati sul « niet».
Ad essere venuti allo scoperto, invitando il Pd a non regalare alla Lega la bandiera del garantismo sono stati finora in pochi: Goffredo Bettini, l'ex capogruppo dei senatori Andrea Marcucci, l'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, che le patologie del sistema giudiziario le ha vissute sulla propria pelle. Persino la ex ministra (ed ex magistrata) Anna Finocchiaro: «Non credo si debba avere paura dello strumento referendario, ma che anzi possa andare di pari passo con la riforma Cartabia, che contiene proposte ottime soprattutto sul processo penale», dice, pur premettendo che non firmerà i quesiti. Ma tra deputati e senatori sono diversi quelli che guardano con interesse, se non con favore, allo «spinta potenzialmente decisiva» (secondo Matteo Renzi) che i referendum possono dare ad una reale riforma di una giustizia profondamente malata come quella italiana. Certo, il timore di andare contro la linea ufficiale del partito e di essere additati come complici di Salvini li trattiene ancora dal venire allo scoperto, ma il fronte potrebbe incrinarsi: «Ci sto ragionando, ma non escludo di annunciare presto che li firmerò», dice un parlamentare.
Negli ultimi giorni, poi, è emersa un'altra forte spinta a favore di alcuni dei quesiti: quella degli amministratori locali del Pd. A Bologna, proprio nelle ore in cui partiva ufficialmente la raccolta delle firme da parte di radicali e leghisti, circa 300 sindaci e amministratori del centrosinistra hanno accolto con ovazioni gli interventi di colleghi vittime di inchieste giudiziarie come lo stesso Uggetti e Stefania Bonaldi, prima cittadina di Crema. E si sono schierati a favore della abrogazione della legge Severino, prevista da uno dei referendum: «Non li firmo per disciplina di partito. Ma su questo tema il movimento dei sindaci è molto unito. Certo quelli del Pd non vorrebbero sottoscrivere i quesiti, ma se il Parlamento starà fermo anche questa volta alcuni sicuramente lo faranno», ha confidato al Domani Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e dirigente dem di peso. Il suo omologo mantovano, Mattia Palazzi, lancia l'idea di una proposta di legge popolare bipartisan «sulla responsabilità penale dei primi cittadini, dal superamento della Severino alla candidabilità dei sindaci alle Politiche».
Sembra proprio un primo segnale, lanciato verso il Nazareno, per indicare che la via del referendum abrogativo potrebbe diventare, per gli amministratori dem, lo strumento ideale (assai più delle poco incisive proposte di iniziativa popolare) per scardinare l'immobilismo della politica su un tema che impatta violentemente sulla loro agibilità politica, sulla loro possibilità di amministrare e sulle loro
stesse vite. «I sindaci vanno tutelati, non possono diventare il parafulmine giudiziario di ciò che accade nelle città», avverte l'ex primo cittadino di Torino Sergio Chiamparino. Per il Pd, un pressing difficile da gestire.
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