Il momento in cui le promesse elettorali vanno a sbattere con la dura realtà delle cose è materializzato nel pomeriggio di ieri. Prima nel vertice di maggioranza che Giorgia Meloni ha voluto tenere nei suoi uffici della Camera nei quali, evidentemente, continua a sentirsi più a suo agio rispetto alle stanze di Palazzo Chigi e poi nel Consiglio dei ministri che ha dato il via libera alla legge di Bilancio, iniziato dopo le nove di sera e andato avanti ben oltre le undici e trenta, come ai bei tempi andati di Giuseppe Conte (il ministro Adolfo Urso, per dire, a una certa saluta tutti e se ne va, che questa mattina è atteso a Milano per un appuntamento pubblico, seguito a stretto giro dal vicepremier Matteo Salvini). È in questi due passaggi che la premier deve in qualche modo raffreddare un parte delle battaglie che hanno guidato la sua opposizione al governo di Mario Draghi e che sono state anche al centro della campagna elettorale con cui Fratelli d'Italia si è presentata alle elezioni dello scorso 25 settembre. A partire dal reddito di cittadinanza. Va «abolito» si legge al paragrafo 9, pagina 17 del programma di FdI per poi «introdurre un nuovo strumento che tuteli i soggetti privi di reddito, effettivamente fragili e impossibilitati a lavorare o difficilmente occupabili». Per il momento, però, non ci sarà alcuna abolizione. Mentre la stretta per i circa 650mila «potenziali occupabili» slitta di otto mesi, un punto di compromesso tra Meloni (che puntava a sei) e la ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone (che avrebbe preferito dodici). Alla fine, insomma, il 2023 sarà sostanzialmente un anno cuscinetto. Nel quale, spiega il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari, «chi è in grado di lavorare avrà una riduzione del sostegno da dodici ad otto mesi». Fatte salve le donne in cinta. Se ne riparla, insomma, a settembre 2023.
D'altra parte, il problema principale è che il reddito di cittadinanza viene percepito da centinaia di miglia di nuclei familiari, famiglie con anziani o minori a carico. Un tema posto ieri da Calderone: «L'impatto rischia di essere devastante». Ma pure - con sfumature diverse - dal ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti: «Serve gradualità». Meloni ne ha piena contezza. La leader di Fdi, è vero, in campagna elettorale si è battuta con forza contro il reddito. E lo ha fatto anche nei suoi comizi al Sud, ben consapevole che dal punto di vista del consenso avrebbe pagato un pegno. Quello che forse non aveva messo in conto, e che in questi giorni è stato argomento di confronto a Palazzo Chigi, è il rischio del riaccendersi di tensioni sociali di difficile gestione. Anche perché il solo fatto di aver messo in agenda una riforma del reddito ha dato un gigantesco argomento demagogico all'unica opposizione di cui ad oggi si abbia notizia, quella di Conte. Che minaccia la piazza. «Governo disumano, siamo pronti a tutto», fa sapere l'ex premier. Tutte ragioni per cui alla fine Meloni sceglie di rallentare la stretta. Si andrà verso l'abolizione, ma con più gradualità.
Prudenza, insomma. Per una manovra per molti versi draghiana. Nella visione complessiva e dei numeri, perché salvaguarda i conti e pur deludendo alcune richieste di Lega e Forza Italia guarda a dare un segnale di affidabilità a Bruxelles. Non gradisce il vicepremier Salvini, che però sceglie di non polemizzare.
Come non apprezza Silvio Berlusconi, che pubblicamente non parla. Ma che in privato non lesina critica su come la premier ha gestito la legge di bilancio. E cioè senza «alcuna interlocuzione diretta» con i partiti della maggioranza.
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