Il voto degli italiani è un problema. Un grosso problema. Parola di Enrico Letta. Al Nazareno sembra esserci un'idea di «democrazia orientata». Un paradosso per un Partito che porta nel simbolo e nel nome la parola «democratico».
Il segretario del Pd confessa il proprio timore nella lunga e articolata relazione (senza applausi) che apre la direzione nazionale: se milioni di italiani con i referendum sulla giustizia del prossimo 12 giugno daranno una spallata al correntismo nella magistratura per il Pd si metterà male.
Ecco che di colpo per i «democratici» il voto diventa un fastidio. Nel suo intervento, Letta mette subito sul tavolo la grande paura: «Io penso che una vittoria dei sì aprirebbe più problemi di quanti ne risolverebbe. Gli interventi sono da fare in parlamento. Io proporrò un orientamento di fondo, il Pd non è una caserma, c'è la libertà dei singoli che resta in una materia come questa» ammette il segretario. Ma il senso del discorso, neppure tanto velato, è che secondo lui sarebbe molto meglio se il quorum fallisse.
Nel Pd la linea del segretario sulla giustizia non raccoglie consenso unanime. È pronta una pattuglia di dissidenti che il 12 giugno voterà sì a tutti o a qualche quesito. Dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori al senatore Salvatore Margiotta, da Gianni Pittella a Luciano D'Alfonso, da Stefano Ceccanti a Enrico Morando, e per finire Andrea Marcucci che al termine della direzione ha comunicato che voterà sì sulla carcerazione preventiva e sulla legge Severino. Letta lo sa bene. E nel merito cerca di prenderla alla larga: «Noi siamo per una riforma complessiva. Non vorrei avessimo una sudditanza psicologica nei confronti di proposte che vengono da sette Consigli regionali del centrodestra».
L'ex premier apre alle modifiche sulla legge Severino. Ma senza spingersi: «È da cambiare e migliorare». Sulla modifica della legge elettorale, il segretario fa un balzo in avanti: «Un cambio è fondamentale».
Un allungo, inaspettato, per placare i mugugni che ormai riguardano un'ampia schiera di parlamentari. Al folto gruppo, fondato dai soliti Marcucci, Stéfano, Margiotta, si sono aggiunti in pianta stabile anche altri deputati quali Andrea Romano, Alessia Morani, Emanuele Fiano. In pratica tutta Base riformista, la corrente del ministro della Difesa Lorenzo Guerini e di Luca Lotti. «Io direi che ormai è una minoranza tra noi coloro che dicono 5 Stelle sempre e comunque, e tra loro non comprenderei il ministro Franceschini, che si esprime con intelligenza tattica e per puro machiavellismo», racconta un senatore del Sud alle prese con il suo sigaro. Franceschini insiste: «L'alleanza Pd-5stelle è una scelta strategica per allargare l'area riformista, che prescinde dalla legge con cui si voterà».
Che cosa potrebbe succedere se in autunno il leader del M5s dovesse svincolarsi dal campo largo? «Una scelta obbligata, l'alleanza con tutti i riformisti, da Calenda e Renzi. Si perderebbero le elezioni comunque, ma almeno con orgoglio - prevede lo stesso parlamentare -: piano piano se ne sta convincendo anche il segretario». Al Nazareno il divorzio tra Pd e M5s è considerato un dato acquisito. Ma la cerchia del segretario avverte: «Non forniamo alibi al M5s».
Nella replica finale, dopo gli interventi, Letta si dichiara disponibile ad aprire un tavolo sulla legge elettorale. E promette: «Il Pd nella prossima legislatura sarà al governo solo se vincerà le elezioni». In pochi ci credono.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.