Trattandosi di schema più che consolidato, sarà pure pleonastico parlarne come di uno «strappo». Ma in realtà non c'è «strappo» nella linea portata avanti dal ministro dell'Economia, Giovanni Tria, che dice «sì» quando Di Maio dice «no» e «no» quando Salvini dice «sì».
Non è per dispetto, non è pura ostinazione. Si tratta solo di una delle tre (o forse quattro) linee politiche portate avanti dal governo, e neppure la più confusa. D'altronde lo si sapeva fin dal suo ingresso nella compagine e la sua prudente tenacia non ha mancato di mettere a nudo certe vergogne dei suoi (almeno) tre colleghi di rango superiore. Così, dopo aver sconfessato premier e vicepremier su Bankitalia e Alitalia, ecco Tria parlare della Tav Torino-Lione all'emittente France 3. Parole chiare, che grondano di forse persino banale buon senso. «Tutti i cantieri pubblici già cominciati, quelli che sono stati già oggetto di contratti, di trattati, di accordi internazionali, devono realizzarsi», dice il ministro dell'Economia, ben sapendo di inoltrarsi su terreno minato, almeno fino alle prossime Europee. Una posizione già espressa di recente in un intervento alla Camera, eppure non priva di quel pizzico di determinazione incosciente, visti i tempi e la contemporanea decisione gialloverde di rallentare ulteriormente il (fu) Treno superveloce.
Tria non s'è accontentato di una semplice enunciazione di testimonianza, da protagonista sconfitto. Alla televisione francese ha voluto sottolineare invece il valore aggiunto che la Tav rappresenterebbe in termini di credibilità e affidabilità del Paese nei confronti degli investitori. «Noi non soltanto dobbiamo rilanciare gli investimenti pubblici, ma dobbiamo mandare un messaggio di serenità a tutti quelli che vogliono investire sul lungo termine in Italia», ha spiegato, facendo in qualche modo emergere la ferita arrecata dalle contingenze politiche a quel necessario slancio oggi indispensabile, in una congiuntura già di per sé difficile.
L'Italia è entrata in recessione e tutti gli istituti segnalano una crescita prossima allo zero per il 2019. A questo si aggiunge il crollo della produzione industriale, il calo dell'export e, appunto, il blocco dei cantieri, Tav e non solo. Una situazione nella quale si avverte pure l'assenza di misure anticicliche significative, perché tali non sono né il reddito di cittadinanza né «quota 100». E tutti dati che il ministro dell'Economia non può sottovalutare: difatti anche nella proiezione su una manovra correttiva autunnale Tria pare ne stia tenendo debito conto. Forse l'unico a farlo, rispetto al cicaleggio elettorale di Salvini e Di Maio, che si sono affrettati a escludere la manovra correttiva. Eppure sulla scrivania di via XX Settembre vengono nutrite poche certezze, la principale delle quali è che a settembre occorrerà trovare circa 40 miliardi: 23 per «coprire» la clausola di salvaguardia Iva e altri 17 per sostenere reddito di cittadinanza e «quota 100», quest'anno meno onerose solo perché il loro avvio è stato posticipato. Si tratterà di una manovra «lagrime e sangue» per la quale già ci si arrovella nella compilazione del Def 2019.
E le frasi pronunciate da Tria l'altro giorno al question-time della Camera già contemplavano l'«aggiornamento» dei numeri e la durezza del prossimo confronto con la Ue. I due miliardi accantonati per il 2019 «per ora appaiono più che sufficienti», ha precisato Tria. Cui non è rimasto che farsi gli auguri per una crescita non inferiore al previsto. O, meglio, gli scongiuri.
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