Un'azienda sanitaria locale dovrà verificare lo stato di salute di un cittadino per stabilire se possa accedere, o meno, al suicidio assistito. Lo ha deciso un tribunale, come rende noto l'Associazione Luca Coscioni. Un uomo di 43 anni, che vive in un piccolo paese delle Marche, chiede infatti che gli venga riconosciuta la possibilità di ricorrere al suicidio assistito, tenuto conto di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale nella famosa sentenza "Cappato-Dj Fabo".
Dopo un brutto incidente stradale, che gli ha provocato la frattura della colonna vertebrale, con lesione del midollo spinale, Mario (nome di fantasia) da dieci anni è tetraplegico, oltre ad avere altre gravi patologie. Il 28 agosto dell'anno scorso ha chiesto alla sua Asl di verificare la sussistenza delle condizioni indicate dalla Consulta per poter accedere al suicidio assistito. A ottobre gli hanno risposto che non è possibile, senza spiegargli le ragioni del diniego. Ma cosa stabilisce la sentenza della Corte? Tenuto conto delle leggi vigenti i giudici della Corte costituzionale hanno stabilito che si debba verificare il sussistere di 4 condizioni: che la persona sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; che sia affetta da una patologia irreversibile; che la patologia sia fonte di intollerabili sofferenze; che il paziente sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Tutto questo deve essere accertato da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
A Mario la Asl ha negato anche i controlli. Per questo, con gli avvocati dell'Associazione Coscioni, ha presentato ricorso di urgenza al Tribunale di Ancona, affinché ordinasse la verifica delle proprie condizioni di salute. Ne nasce una dura battaglia legale. Il 26 marzo il Tribunale conferma il no: pur "riconoscendo che il paziente ha i requisiti che sono stati previsti dalla Corte Costituzionale (...) afferma che 'non sussistono... motivi per ritenere che, individuando le ipotesi in cui l'aiuto al suicidio può oggi ritenersi lecito, la Corte abbia fondato anche il diritto del paziente, ove ricorrano tali ipotesi, ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell'attuare la sua decisione di porre fine alla propria esistenza".
Dopo l'ennesimo ricorso il Collegio del Tribunale civile di Ancona ha ordinato all'Azienda sanitaria unica regionale delle Marche di provvedere, previa acquisizione del relativo parere del Comitato etico territorialmente competente, ad accertare "se Mario sia persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili; se sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; se le modalità, la metodica e il farmaco (20 grammi di Tiopentone sodico) prescelti siano idonei a garantirgli la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile". I giudici confermano quindi che il paziente, assistito dai legali dell'Associazione Luca Coscioni, ha il diritto di pretendere che si effettuino gli accertamenti disposti dalla Consulta, affinché l'aiuto che gli sarà fornito non sia reato ai sensi dell'articolo 580 del codice penale relativo al suicidio assistito.
"Mario ci ha messo 10 mesi passando per 2 udienze 2 sentenze, per vedere rispettato un suo diritto, nelle sue condizioni", afferma l'avvocato Filomena Gallo, segretario dell' Associazione Luca Coscioni e coordinatore del collegio difensivo del malato. "Non è possibile costringere gli italiani a una simile doppia agonia. Occorre una legge. Per questo a fronte di un Parlamento paralizzato e sordo persino ai richiami della Corte costituzionale è necessario un referendum.
Per tutta l'estate chiederemo agli italiani di unirsi alla battaglia di Mario, e di altre persone che vogliono potere scegliere come morire, ma son costretti o a impegnativi viaggi all'estero o terminare la propria vita in un dolore che non vogliono sopportare".
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