L’Occidente ha perso la bussola e se non la ritrova in fretta è destinato a perdersi. Giovanni Orsina sembra parlare da un tempo lontano, con l’orizzonte spostato nel futuro e la profondità di chi non si limita a valutare il presente ma cerca di decifrare gli scenari che ruotano intorno al punto di svolta che stiamo vivendo. È lo storico che si immerge in quella che sta diventando una guerra di civiltà tra liberaldemocrazie e autocrazie, tra chi pensava di poter dare un senso al mondo, con i diritti universali dell’umanità come pietra d’angolo, e chi quel senso lo considera arbitrario e perfino innaturale. È la lunga ricerca di un equilibrio che si è rotto, proprio quando si pensava che la storia fosse arrivata alla sua stazione finale, con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda. Era invece solo l’inizio di un altro viaggio. Era un’illusione, quella degli anni Novanta.
“Pensavamo che il modello occidentale fosse destinato a espandersi ovunque. C’era una sola superpotenza che si proponeva come garante di una pace basata sui valori di libertà e democrazia. C’era grande ottimismo”, ricorda il professore nel suo intervento al convegno Luiss “La guerra in Ucraina: politica, economia e comunicazione”. La prima grande svolta arriva con l’11 settembre. È l’inizio della stagione della paura. Qualcosa si incrina nelle certezze degli Stati Uniti. C’è l’idea che per difendere quell’equilibrio globale non bastano le parole e le speranze, ma c’è anche bisogno di mostrare i muscoli. “Bush la battezza come guerra al terrore. Non è però ancora una rottura rispetto agli anni '90, perché resta l’intenzione di promuovere il modello occidentale come buono per tutti”. Washington crede ancora nella possibilità di esportare la democrazia, qualche volta arrivando ad usare perfino le maniere forti.
È con la presidenza Obama che l’America fa un passo indietro, comincia a sentire l’urgenza di ritirarsi un po’ dal mondo. Non lo fa solo per disinteresse o empatia verso gli altri, ma perché i costi di quel controllo globale stanno diventando troppo alti e pesano sulla crisi quotidiana degli statunitensi. La crisi finanziaria del 2007 e 2008 segna una dismissione, anche perché si cominciano a vedere gli svantaggi del mercato globale. È un ridimensionamento che diventa evidente e simbolico con il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. “Gli Usa hanno cominciato gradualmente ad avere una nuova strategia, una sorta di continuità nel disimpegno e tutto questo fa emergere il problema del rapporto tra “the west and the rest” e quindi ha rimesso in discussione l’idea dell’unicità del modello occidentale, della sua espansione e ha riaperto il problema dell’assetto e degli equilibri internazionali”.
È il segnale che gli “altri” percepiscono in fretta e la risposta comincia proprio con la guerra in Ucraina. “Non è che gli altri, il resto, siano un monolite, tutt’altro, resta però il fatto che quando le Nazioni unite hanno votato l’espulsione della Russia dal consiglio per i diritti umani, la Cina ha votato contro, il Brasile ha votato contro, l’India si è astenuta, ed è vero che la mozione è passata con un’ampia maggioranza, però si è trattato di un’astensione importante. È inutile che ci nascondiamo dietro un dito, India più Cina fanno circa 3 miliardi di persone, quindi tutto il discorso dell’isolamento della Russia è molto più complicato di quello che sembra”.
La guerra in Ucraina, insomma, non è altro che la fase acuta di un processo già in corso da vent’anni, è la ridefinizione del ruolo dell’Occidente nel mondo e della sua stessa identità. “L’Occidente si è lacerato su cosa dovesse fare, cosa dovesse essere e se esista o meno un Occidente”. Lo sviluppo del populismo è stata la risposta, caotica e di pancia, ai malesseri economici e culturali che arrivano dal mercato globale. “L’insurrezione populista ha ritenuto che la globalizzazione non fosse a beneficio di tutti. Questo ha aperto una serie di fratture e gli scontenti hanno cominciato a guardare a modelli non occidentali: ma perché non facciamo come loro? In fondo la Cina difende meglio i propri interessi nazionali”. Allo stesso tempo le élites economiche e culturali hanno cominciato a provare diffidenza verso il “popolo”, mettendo in discussione i valori cardine della libertà e della democrazia.
“A questi valori io – confessa Orsina – sono piuttosto affezionato e tutto sommato continuo a ritenere che nei paesi liberaldemocratici con economia capitalista si viva meglio che altrove. Bisogna però riconoscere che l’idea di esportare la nostra visione del mondo non funziona più. Quindi credo che termini desueti come interesse nazionale, difesa, sicurezza temi che per molti anni sono stati un po’ marginalizzati invece devono tornare ad essere assolutamente centrali”. È questa la partita che stiamo vivendo e la prima sfida non è poi così lontana.
“Il voto francese sarà la prima cartina al tornasole per capire come le culture politiche europee si stanno riposizionando intorno a questa crisi. Se noi ci dividiamo nella difesa dei valori occidentali allora saranno guai abbastanza seri”. È il momento di definire con chi stare, se con l’Occidente o contro, se con Atene o con Sparta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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