Tobagi, il gip Salvini non diffamò i carabinieri

L'ex magistrato fu condannato in primo grado per i suoi dubbi sull'indagine

Tobagi, il gip Salvini non diffamò i carabinieri
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Walter Tobagi poteva essere salvato. Raccontare che i progetti di morte ai danni del giornalista del Corriere della sera, assassinato da terroristi rossi il 28 maggio 1980, fossero noti da tempo ai carabinieri, non vuol dire infangare l'Arma: ma solo raccontare come in quegli anni, un errore di sottovalutazione potesse avere conseguenze drammatiche. Il giudice milanese Guido Salvini, che quell'errore raccontò in pubblico, è stato assolto l'altro ieri dall'accusa di avere diffamato il colonnello dei carabinieri Alessandro Ruffino, all'epoca in servizio al reparto anticrimine dei carabinieri milanesi. In primo grado Salvini - che ha lasciato la magistratura nel dicembre scorso - era stato condannato a ottocento euro di multa e a un risarcimento di cinquemila euro.

Quello dei segnali e delle «soffiate» che avevano anticipato l'agguato a Tobagi è un tema che si trascina da tempo, e che portò ad uno scontro frontale tra la Procura di Milano e il padre del giornalista affiancato dal segretario del Psi Bettino Craxi: che dietro al nulla fatto per proteggere il giornalista vedevano la mano di chi voleva azzittire Tobagi, voce dissidente nel sindacato dei giornalisti. Nelle sue dichiarazioni pubbliche, oggetto della querela del colonnello Ruffino, il giudice Salvini si guardava bene dallo sposare tesi complottiste. Si limitava a dimostrare, carte alla mano, che un confidente dei carabinieri, Rocco Ricciardi, aveva indicato esplicitamente Tobagi come un obiettivo tempo prima della sua uccisione. E aveva fatto riferimento a Marco Barbone, rampollo della buona borghesia milanese, aspirante brigatista insieme ai suoi compagni - quasi tutti rivoluzionari da Ztl - della Brigata 28 Marzo.

Indicazioni troppo generiche, ha sempre detto la Procura di Milano. La prova provata che non lo fossero, dice invece Salvini, è fornita da un dato semplice: appena dopo l'uccisione di Tobagi, i carabinieri andarono a colpo sicuro a cercare Barbone. Lo fecero rispolverando una vecchia inchiesta su un episodio minore di due anni prima, una guardia giurata che era stata rapinata della pistola, e partorendo all'improvviso una perizia grafica che collegava Barbone alla rivendicazione della rapina. «Il foglietto - ha spiegato Salvini nelle sue dichiarazioni alla Corte d'appello di Brescia - viene tirato fuori dalla massa di carte che si trovano negli archivi. Si sapeva già cosa andare a cercare». Il 25 settembre 1980 Barbone viene arrestato per la rapina al metronotte, ma, dice ancora Salvini, «la mini indagine è uno specchietto per allodole che nascondeva ben altro». In caserma arriva il generale Dalla Chiesa. «Guarda che noi sappiamo tutto», dicono i carabinieri al fermato. E Barbone confessa l'omicidio Tobagi e fa arrestare tutti i suoi compagni. Gli appunti del maresciallo che aveva raccolto le confidenze del «pentito» spariscono.

Il

colonnello Ruffino, assai legato alla Procura di Milano, pur senza essere stato nominato da Salvini si era sentito diffamato da questa ricostruzione. La Corte d'appello di Brescia assolve Salvini «perchè il fatto non sussiste».

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