«Non ce l'hanno con me, ce l'hanno con voi». Al di là delle analisi delle centinaia di esperti che in questi anni si sono cimentati col «Fenomeno Trump», basta questo passaggio a spiegare l'identificazione quasi tribale che c'è tra il tycoon e il suo popolo. Le migliaia di repubblicani «Maga», accorsi da ogni angolo del Texas e dagli Stati vicini, che affollavano le tribune allestite all'aeroporto regionale di Waco per ascoltare il tycoon nel suo primo comizio ufficiale della Campagna 2024, non sembrano avere dubbi. In America c'è una guerra in corso, per ora (fortunatamente) solo culturale, certamente politica, e Trump è il loro Capo.
L'ex presidente è sceso dall'Air Trump One ed è salito direttamente sul palco, in un tripudio di bandiere a Stelle e Strisce e cartelli che recitavano, «Witch Hunt», caccia alle streghe. Se il messaggio della (deludente) campagna di midterm dello scorso anno era tutto incentrato sull'«elezione rubata» del 2020, per il 2024 Trump punta tutto sulle sue disavventure giudiziarie e sull'«uso della giustizia come arma politica» da parte dei Democratici e di quel «Deep State», inquinato dai medesimi Dem, che secondo il tycoon continua a controllare il governo federale, a prescindere dal voto degli americani. Sebbene l'entourage trumpiano abbia assicurato che la scelta di Waco è stata fatta solo per ragioni logistiche, il luogo ha una sua valenza simbolica che non può essere casuale.
A una trentina di chilometri da qui, 30 anni fa, l'«Assedio» degli agenti federali alla fattoria della setta dei Davidiani del santone David Koresh, si concluse con la morte di un'ottantina di persone. Un simbolo, per alcuni, della volontà di prevaricazione dell'odiato governo di Washington: quella «palude» che Trump voleva «drenare», come aveva promesso nel 2016, e nella quale invece (vista la quantità di inchieste che lo riguardano) rischia di affogare. Prima di lanciarsi nella sua invettiva, Trump ha ascoltato con la mano sul cuore Justice for all, la canzone realizzata dai J6 Prison Choir, il coro di alcuni dei suoi fedelissimi incarcerati dopo l'insurrezione del 6 gennaio 2021. Poi, il tycoon è partito all'attacco. Tra i primi bersagli il «dipartimento di Ingiustizia» e il procuratore di Manhattan, Alvin Bragg, titolare dell'inchiesta sui soldi sottobanco pagati alla pornoattrice Stormy Daniels, e che la prossima settimana potrebbe incriminarlo. «Mi persegue per niente, non c'è un reato, non c'è un reato minore, non c'è una relazione sentimentale». Per rassicurare i suoi fan su quest'ultimo punto, Trump ha spiegato che Stromy Daniels «non mi è mai piaciuta, ha la faccia da cavallo». Le inchieste «farlocche», quindi, sono roba da «Russia stalinista», da «Repubblica delle Banane». L'idea che le tante inchieste (due a Washington, due a New York e una ad Atlanta) possano impedirgli di battere l'«ingrato» e «ipocrita» Ron DeSantis per la nomination e fermare la sua corsa alla Casa Bianca non è un'opzione che Trump prende in considerazione: «Sarete vendicati e fieri. I teppisti e i criminali che hanno corrotto il nostro sistema giudiziario saranno sconfitti e screditati», assicura.
Eppure, si è comunque notato un (lieve) abbassamento dei toni negli attacchi al procuratore Bragg, intensificatisi dopo il mancato «arresto» di martedì scorso, che lo stesso Trump aveva preannunciato sul suo social media Truth. Dopo averlo definito «un animale» (un insulto dal connotato anche razzista, visto che Bragg è afroamericano) e avere invocato «morte e distruzione», Trump aveva anche pubblicato una sua immagine con in mano una mazza da baseball, affiancata alla testa del procuratore. Quel post, definito «un errore» dall'avvocato del tycoon, Joe Tacopina, è stato rimosso.
Come ha spiegato sul Wall Street Journal Karl Rove, l'ex stratega di George W. Bush, «la strategia di Trump sembra concentrata solamente sul vincere i voti dei suoi fedelissimi, ma molti sono stanchi e l'ultima volta non ce n'erano abbastanza per farlo eleggere».
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