Nicola Zingaretti ha formalizzato le sue dimissioni da segretario del PD. “Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie”. Con queste parole il presidente della Regione Lazio aveva annunciato la sua decisione. I tentativi, veri o presunti, di far rientrare le dimissioni non hanno sortito effetti.
Il fallimento di Zingaretti
A pesare sulla scelta di Zingaretti c’è il fallimento del Conte ter, su cui l’ex segretario si era spinto fortemente, che riacceso le lotte tra le correnti. “Secondo me si è dimesso per la situazione interna al partito e perché era diventato un parafulmine per tutte le dinamiche interne - ci dice il professor Luigi Di Gregorio, docente in Scienze politiche presso l’Università della Tuscia -. Cosa molto frequente nel PD, un partito molto plurale per cui se il leader non è in una fase positiva diventa una sorta di pungiball per tutti gli altri”. Per di più la soluzione allo stallo politico precedente alla formazione del governo Draghi ha visto uscire vincitore l’ex Matteo Renzi. “La formazione del governo Draghi ha fatto perdere centralità nel sistema politico al PD, l’ha costretto all’alleanza con la Lega - aggiunge a IlGiornale.it il professor Lorenzo Castellani, docente in Storia delle Istituzioni Politiche presso la Luiss -. Vedere superare l’opzione Conte li ha resi estremamente deboli agli occhi del propri elettori. Quindi Zingaretti ne esce come uno sconfitto. Inoltre nella formazione del governo draghi è stato messo in scacco da Renzi e Salvini tutto questo ha creato delle forti tensioni interne”.
La balcanizzazione del Pd
Così il Partito democratico si ritrova a dover cercare un nuovo leader che sappia da un lato tenere insieme le anime del partito e dall’altro riavviare il dialogo con i territori. “Non credo ci sia un nome in grado di tenere insieme tutte le posizioni del Pd perché è un partito balcanizzato, ci sono troppo componenti interne non dico in lotta tra loro ma abbastanza giustapposte - continua il prof. Di Gregorio -. È un po’ la storia del PD, quando nacque si parlava di fusione a freddo. Il partito è rimasto plurale, con diverse anime che quando le cose non vanno bene tendono a scontrarsi più che a ritrovare l’unità. Comunque al di là del nome il PD ha un problema di posizionamento e di idee. Non ha una sola idea che lo rappresenti”. Non a caso il Pd ha una storia particolare con i leader forti. Di solito i leader forti non durano tanto e non fanno una bella fine, pensiamo a Renzi o Veltroni”.
Fiorello lancia Franceschini
Nel corso della seconda puntata del Festival di Sanremo il coconduttore Rosario Fiorello ha lanciato l’ipotesi di Franceschini leader del Pd. “Tutto sommato potrebbe anche essere. Anche se per guardare quello che succede nel PD serve molto tempo per dipanare tutti i fili- ci dice il professor Giovanni Orsina, Direttore della Luiss School of Government -. Quella di Franceschini sarebbe un’opzione molto interna al PD di governo, di classe dirigente mentre mi sembra che il PD abbia un problema molto serio di recupero della base elettorale. Non so se Franceschini sarebbe leader adatto per questo tipo di ragionamento rispetto al quale le mosse più ardite le stia facendo Bonaccini. Il PD è un ginepraio”. Franceschini potrebbe trovare, però, più utile restare dietro le quinte e rispetto a rivestire il ruolo di frontman. “Non so se Franceschini abbia interesse a diventare segretario del PD - aggiunge il professor Castellani -, forse a lui può convenire di più decidere chi far diventare segretario”. L’attuale ministro per i beni e le attività culturali potrebbe svolgere il ruolo di traghettatore fino alla fase congressuale. “Franceschini non è un uomo divisivo però vene da un’area interna al PD che non è riuscita a saldarsi con l’altra area degli ex PCI - dice il professor Di Gregorio -. Io personalmente oserei un tentativo di una segreteria al femminile, vista la recente polemica sulla scelta dei ministri e visto che oggi in Italia c’è un solo leader donna ed è a destra”.
Una mission impossible
Il PD, oltre a dover trovare un nuovo nome per la sua segreteria, deve cercare la strada per rinsaldare il legame con gli elettori. “Io credo che sia una mission impossible, non riesco a capire come il partito possa uscire dall’impasse nel quale si è cacciato - aggiunge il professor Orsina -. Nel momento in cui il segretario Zingaretti dice che il partito pensa solo alle poltrone è un tale danno... Il Pd è un organismo molto stanco. Generalmente in termini storici quando un organismo arriva a quel livello di stanchezza diventa difficile tirarlo fuori”. Una sfida davvero difficile da affrontare mentre si rivestono ruoli di governo. “Il patito dovrebbe accettare di fare un lungo periodo all’opposizione perché quando governi non hai la forza e la testa per ristrutturanti - continua il professor Orsina -. Invece questo è un partito che da sempre e costantemente la scelta di stare al potere. E anche l’anno di governo giallo-verde non l’ha utilizzato per ristrutturarsi ma l’ha trascorso a a rimpiangere di non essere più al potere. Se alle prossime elezioni dovesse vincere il centro destra il PD avrebbe il tempo per riflettere su se stesso. Ma il partito essendo strutturalmente di governo fatica ad accettarlo”. Il Pd si ritrova ad essere molto lontano dalle piazze, dalla base dei suoi elettori e troppo concentrato nei giochi di palazzo, come da stessa ammissione del suo ormai ex segretario. “C’è una sconnessione molto forte tra l’ala romana, penso sia al gruppo politico che ai gruppi parlamentari, e il territorio, i sindaci e i governatori delle Regioni - aggiunge il professor Castellani -. Il Pd è forte nelle città con più di 200mila abitanti e quasi del tutto assente nella provincia più profonda. È vero che per governare un paese serve la classe dirigente e il ceto intellettuale ma non basta, senza il territori diventa difficile governare o sopravvivere politicamente”.
Il leader del territorio
Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna, potrebbe essere l’uomo giusto per riaprire il dialogo con i territori. “Bonaccini era dato per rampante ma in una prospettiva di lungo termine. Diciamo che queste dimissioni hanno scombinato un po’ i piani a Bonaccini perché hanno accelerato la crisi e anticipato la fase congressuale - dice il professor Di Gregorio -. Comunque prima del nome vengono le idee, al momento mi sembra un partito molto confuso. L’unica linea che sembra prevalere è quella del governo, come se stesse lì quasi per governare e basta”.
Le Sardine, poca roba
Durante le ultime elezioni in Emilia Romagna la formazione delle “Sardine” di Mattia Santori è stata capace di mobilitare la base elettorale di sinistra per contrastare l’avanzata della Lega. Ora Santori ci riprova e lancia l’’iniziativa “occupy Nazareno”. “Mi pare poca roba - dice senza mezzi termini il Direttore Orsina -. Le sardine sono nate alle elezioni in Emilia Romagna solo per fermare Salvini in Emilia Romagna. Un’operazione molto interna alla cultura del PD che ha dato un po’ di freschezza, di spinta al Pd in quel contesto. La pandemia ha tolto molta attenzione al movimento. Tra l’altro le sardine parlano a un elettorato già convinto a votare PD, però non risolvono il problema strutturale del Pd che è quello di uscire da quelle base, di allargare quella base”.
Un partito a rischio estinzione
Il rischio che corre il PD, se non saprà scegliere un leader capace di sciogliere questi nodi è quello dell’irrilevanza. “Almeno dal 2013 il PD è a rischio estinzione - aggiunge il professor Orsina -. Non ci dimentichiamo lo psicodramma del 2013 della mancata vittoria di Prodi, e poi Renzi, e poi il fallimento di Renzi, e poi ancora la scissione, e nel 2018 il peggior risultato di sempre. Questo partito viveva perché era antiberlusconiano. Nel momento in cui Silvio Berlusconi, con la crisi del debito sovrano nel 2011, è entrato in crisi politica il Pd è entrato in crisi di identità. Poi la politica è un campo di scelte alternative, quindi fino a quando non ci sarà un soggetto in grado di occupare quegli spazi di sinistra il PD comunque riesce e a tenere. Però anche il fatto che una figura non fortissima come Conte, secondo i sondaggi, sia in grado di togliere 4-5 punti percentuali dà la misura di quanto la presenza di un’alternativa convincente possa per il Pd essere devastante”.
Il rapporto con il M5S
Se la strategia di sostegno oltranzista al Conte ter, e il suo fallimento, è stata una delle ragioni delle dimissioni di Zingaretti ora al Pd resta da capire come riorganizzare la geografia dell’alleanza con il M5S. “È chiaro che quell’alleanza è nata fondamentalmente per un nemico comune, per evitare il trionfo di Salvini - conclude il professor Di Gregorio -. Se la coalizione di centro destra tiene il Pd sarà tentato di fare sponda con il M5S. A meno che in questi due anni non si faccia la famosa riforma elettorale con forma proporzionale”. Una scelta obbligata a meno che non si cambino le regole del gioco. “Con l’ingresso della Lega nella maggioranza di governo l’ipotesi di fare sistemi proporzionali è tramontata, il che vuol dire che o andiamo a elezioni con questo sistema elettorale o se cambia restiamo dentro un complesso maggioritario - conclude il prof. Orsina -. Se nel frattempo non salta l’alleanza di destra lì c’è un blocco che arriva quasi al 50%.
Il che vuol dire che, sia per il M5S che per il Pd, l’accordo è una condizione indispensabile se vogliono provare a vincere o essere competitivi alle elezioni. Sono due partiti in ristrutturazione anche se il M5S sembra più avanti, se non altro il M5S un leader ce l’ha”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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