Di errori ne ha commessi, Nicola Zingaretti. Alcuni grossolani, come l'aperitivo da "Milano non si ferma" quando l'urto del Covid-19 stava per abbattersi sull'Italia. Prima di arrivare all’annuncio a sorpresa del passo indietro, il segretario dimissionario del Partito democratico ha infatti inanellato una serie di gaffe di comunicazione unite a scelte politiche a volte incomprensibili anche ai suoi sostenitori. Di sicuro l’atto finale, quello capitale che gli viene imputato, riguarda l’indissolubile matrimonio politico con Giuseppe Conte. Ora, di fronte al Pd, si spalanca una fase di incertezza. Sul tavolo ci sono due opzioni ufficiali, previste dallo statuto: Valentina Cuppi, sindaco di Marzabotto e presidente del partito, può assumere la reggenza fino al congresso. In alternativa l’assemblea nazionale, convocata per il 13 e il 14 marzo, può eleggere un segretario-traghettatore (ma nella pienezza delle funzioni) per organizzare il congresso da celebrare in autunno. Serve, tuttavia, l’accordo tra le correnti.
Questa dinamica è già avvenuta nel 2013, quando Guglielmo Epifani fu nominato segretario, in seguito alle dimissioni di Pier Luigi Bersani, con il compito di guidare il Pd fino all'elezione di un leader benedetto dalle primarie. C’è, però, la terza ipotesi: l’assemblea può invitare il segretario a restare in carica, a ripensarci. “Quella di Zingaretti potrebbe essere una di quelle mosse compiute per farsi rilegittimare”, osservano fonti di minoranza. Insomma, prenderebbe forma quanto dichiarato subito dal capogruppo alla Camera, Graziano Delrio: “In un momento così grave e difficile per il Paese il Pd ha bisogno che Nicola, che ha sempre ascoltato tutti, rimanga alla guida del partito”. Del resto Zingaretti, sottolineano i più attenti, non ha usato l’aggettivo “irrevocabili” vicino all’annuncio di dimissioni e ha detto di rimettersi all’assemblea. C’è chi vede una porta lasciata aperta.
Dimissioni non a ciel sereno
Le dimissioni del segretario giungono come un fulmine, ma il cielo nel Pd non era certo sereno. Zingaretti paga il conto alla gestione dell’ultima crisi di governo. La linea “Conte o elezioni”, dettata dal suo braccio destro Goffredo Bettini, si è squagliata in pochi minuti. È bastato si facesse il nome di Mario Draghi per un governo di unità nazionale. In quel momento è arrivata la vittoria politica di Matteo Renzi, il suo grande avversario, anche dopo la scissione e la nascita di Italia viva. Proprio la rottura dell'ex rottamatore ha lasciato in dote a Zingaretti dei gruppi parlamentari in gran parte renziani, basti pensare ad Andrea Marcucci, capogruppo al Senato. Da allora è iniziata la fase di convivenza con Base riformista, la corrente di Lorenzo Guerini e Luca Lotti formata dagli ex fedelissimi di Renzi che hanno scelto di stare nel Pd. E soprattutto il segretario del Pd ha dovuto combattere contro l'ex compagno di partito.
Dal veto all'invaghimento per Conte
Ma non c'è solo Renzi nel cammino di Zingaretti: contano anche le scelte compiute. Grande sorpresa ha infatti destato il progetto insistere sull’alleanza strutturale con il Movimento 5 Stelle, nonostante le elezioni siano lontane. Del resto che la linea zingarettiana stesse sbandando, era emerso fin dall’agosto 2019. Il leader del Pd voleva il voto dopo la caduta del primo governo Conte. Pure in quel caso c’è stato un ravvedimento rapido: ha accettato il confronto con i 5 Stelle sotto la spinta dei gruppi parlamentari, a trazione renziana.
La trattativa è stata gestita con difficoltà e il risultato non è stato dei migliori. Il veto posto inizialmente sul nome di Conte è caduto dopo pochi giorni, sempre grazie all’insistenza dei renziani del Pd, che all’epoca non osteggiavano l’avvocato del popolo. La pandemia ha poi capovolto la situazione: Zingaretti si è legato indissolubilmente all’ex presidente del Consiglio. Anche al prezzo di donargli consensi, visti i recenti sondaggi. Nella gestione degli ultimi mesi, infine, ha fatto rumore l’infortunio del mancato rispetto delle quote rosa nel governo Draghi: tra i ministri dem non c’è nessuna donna. La toppa è stata messa con la nomina delle sottosegretarie, ma è parsa una mossa tardiva.
Gli errori di comunicazione
Ma nei due anni alla guida di Largo del Nazareno, ci sono stati anche strafalcioni di immagine. La foto simbolo, appunto, è quella di “Milano non si ferma”, quando Zingaretti - all’inizio della prima ondata del Coronavirus – si fece immortalare a fare aperitivo. Ma è stato uno svarione perdonato: in quel momento non era il solo a ignorare gli effetti del virus. Peraltro ha anche pagato dazio al Covid-19, venendo infettato. Poi ne ha combinate altre, come la foto “dell’Italia che resiste”, pubblicata il primo maggio: l’immagine ritraeva personale sanitario cinese.
Infine, l’ultimo scivolone in ordine di tempo, è arrivato con il tweet di sostegno a Barbara D’Urso. Un cinguettio rumoroso che ha fatto infuriare gli elettori, scatenando le ironie di mezzo partito. Che piano piano lo ha mollato al suo destino. Salvo ripensamento. L’ennesimo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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