Tutti progressisti (ma senza buone maniere). E il vizietto nazionale è fregare il prossimo

Ricossa ironizza sulle nostre cattive abitudini di 40 anni fa. Identiche ad oggi

Tutti progressisti (ma senza buone maniere). E il vizietto nazionale è fregare il prossimo

Si diceva, nel Settecento, che la civiltà è la dolcezza dei costumi. Mi accontenterei che si concordasse nel giudicare la democrazia inseparabile dal galateo. Oggi la democrazia è in crisi anche perché manca il rispetto per gli altri, e vige un galateo al rovescio, come quel "Grobiano" pubblicato nel Cinquecento dal Dedekind, che insegnava a ruttare in faccia alla gente.

Il plebeo fa premio sul "Vero Signore", che è il titolo di una delle ultime buone "guide pratiche di belle maniere" apparse in Italia. La pubblicò Longanesi nell'ormai lontano 1948, e la scrisse Willy Farnese, cioè Giovanni Ansaldo. Allora poteva avere ragione l'editore quando sosteneva che essere veri signori è un ideale che piace a tutti. Adesso queste parole fanno semplicemente ridere. Gli italiani, per il prossimo non hanno mai avuto molto riguardo, e tra i vizietti nazionali ci sono quelli di arrivare in ritardo, spingere quando si è in fila davanti a uno sportello, fare una faccia scocciata quando si è dietro lo sportello a servire il pubblico, e insudiciare i marciapiedi. Ma ora, un gigantesco pantografo ha portato da quei vizietti all'imbarbarimento della vita collettiva.

I giovani spendono quattrocento miliardi di lire all'anno per comperarsi i jeans, che più sono logori e sporchi, e più si reputano eleganti. La coprolalia si avvale del cinemascope stereofonico. L'automobile ci aizza gli uni contro gli altri. La scuola insegna a confondere la libertà con la licenza. L'unica educazione di cui si parla ancora è l'educazione sessuale. Siamo ormai tutti progressisti, mentre il vero signore (lo ammette Ansaldo) è un "sorpassato". Abbiamo politicizzato ogni cosa, ognuno di noi è diventato un po' "politico", un po' uomo di quella razza per cui "la passione per il potere suggerisce dei colpi di genio tali di volgarità e di bassezza contro i quali non c'è niente da fare".

In economia, ci portiamo l'inflazione come le "cocottes" portavano i gioielli falsi. Ci vantiamo dei debiti, soprattutto quando non abbiamo intenzione di rimborsarli. Riteniamo doveroso frodare il datore di lavoro. A ogni ondata di scioperi, mettiamo un fischietto in bocca agli operai, e li mandiamo in corteo a imitare le peggiori tradizioni goliardiche: questo lo chiamiamo elevazione del popolo.

Crederò alla rinascita (o rifondazione, come preferiscono gli stilisti) della democrazia, quando vedrò più gente entrare in libreria e chiedere un galateo, inteso come libro serio, non umoristico. I comunisti, che adesso giocano alla democrazia, l'hanno capito e si danno da fare. Il sindaco di Torino, in vista delle elezioni, è arrivato al punto di mandare in giro delle squadre, che cancellano le scritte abusive e deturpanti sui muri pubblici e privati. Un bel gesto, il cui garbo piacerebbe di più se non finisse nell'ipocrisia.

Che la borghesia prenda lezioni di galateo dai comunisti è, nel migliore dei casi, uno spreco. C'è una tradizione borghese autentica a portata di mano, ed è di prima qualità: noi l'abbiamo chiusa poco tempo fa, noi possiamo riaprirla. Non ci servono i surrogati o, peggio, i falsi. Torniamo alle "guide pratiche di belle maniere". Potremmo averne bisogno se i comunisti riprendessero l'abitudine di dar la caccia al borghese, perché i tempi duri sono i più esigenti. "La prigione - scriveva Ansaldo (aveva conosciuto quella fascista, quella tedesca e quella antifascista) la prigione porta certo la palma come ambiente adatto a mettere meglio in rilievo le qualità del vero signore. Egli andava oltre nella previdenza, e scriveva un capitoletto intitolato "Sul patibolo", in cui prendeva a modello l'esecuzione di Carlo I d'Inghilterra, avvenuta il 27 gennaio 1646.

Fra l'altro si legge: "Perché il vero signore possa morire con un giusto decoro sul patibolo, occorre, s'intende, che coloro che lo condannarono e vogliono eseguire la sentenza capitale posseggano anch'essi un senso almeno elementare delle convenienze sociali, e della etichetta necessaria tra la gente perbene".

27 giugno 1976

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