Quando un giornalista muore sulla linea del fuoco è un dramma per tutto il mondo, e purtroppo accade spesso, come si vede anche in Ucraina. Quando questo accade sul fronte del conflitto israelo-palestinese tuttavia la reazione è diversa da ogni altra, molto simile a una condanna pubblica senza processo. Qui Israele è il condannato preventivo del grande accusatore, la rete, il movimento, i politici. Shireen Abu Akle, la giornalista 51enne di Al Jazeera uccisa ieri da un proiettile a Jenin, in Cisgiordania, era seguita e apprezzata da decine di milioni di telespettatori: filopalestinese sempre sul campo, convinta che gli israeliani fossero responsabili di crimini da raccontare al telespettatore, spiegava il suo impegno in prima fila dai tempi dell'Intifada, dicendo che «voleva essere vicina al popolo e portare la sua voce al mondo». Una posizione politica consona al ruolo di Al Jazeera, jihadista e amante dei palestinesi (tutti noi giornalisti l'abbiamo incontrata, agile e articolata, e la notarono anche gli autori di Fauda, che hanno tratto da lei l'ispirazione per il nome della dottoressa, Shireen, protagonista della serie Netflix). Alla notizia della sua morte, i siti per la «causa palestinese» e i notabili della battaglia si sono mobilitati nell'accusare Israele di «terrorismo di stato», come ha detto il ministro degli Esteri giordano Ayman al Safadi, o il ministro degli Esteri del Qatar, il paese che di Al Jazeera è lo sponsor e che finanzia, notoriamente, Hamas; Abu Mazen si è spinto a dichiarare la morte della Abu Ahla una esecuzione, e di là dall'oceano la deputata Rashida Tlaib dal Congresso americano, attivista palestinese nota, ha detto che Israele deve essere processata dalla corte internazionale. Da Israele si chiede che i palestinesi accettino, cosa che per ora hanno rifiutato, una commissione formata dalle due parti, più garanti, che esamini la realtà dei fatti. Un'inchiesta indipendente la chiedono anche Stati Uniti, Onu, Unione europea. La prima ricerca dovrebbe essere sul proiettile che ha ucciso Shireen. Il primo ministro Naftali Bennett, il Capo di Stato Maggiore Aviv Kohavi, il ministro della Difesa Benny Gantz («non c'è stato fuoco dell'esercito verso giornalisti, mentre abbiamo materiale sul fuoco indiscriminato dei palestinesi»), tutti rifiutano la condanna preventiva e anzi pensano che sia probabile che il fuoco inaccurato dei terroristi sia responsabile del tragico episodio, e chiedono che una commissione faccia luce. Poiché Shireen era anche americana, può darsi che in vista della visita di Biden, in giugno a Gerusalemme e a Ramallah, si accetti un'indagine. Comunque siano, purtroppo, andate le cose, l'esercito era a Jenin perché è la città da cui muove una percentuale impressionante di terroristi, compresi quelli di quest'ultima ondata. In un documento filmato ieri, uno degli abitanti spara col kalashnikov e urla «ho colpito un israeliano, è a terra».
Ma non risulta nessun israeliano colpito. In Israele l'ipotesi è che, per un equivoco, la persona colpita sia Abu Akle. Ma occorrono le perizie necessarie, altrimenti non si saprà cos'è successo, qualsiasi cosa dicano i palestinesi.
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