Tre donne che giudicano un uomo accusato di stupro. Ma insieme all'imputato finiscono col giudicare anche la donna che lo accusa. E alla fine assolvono l'uomo, con una motivazione che - rivelata ieri dal Corriere della sera - fa subito il giro del web, e riapre bruscamente il tema delicato dei processi per violenza sessuale. Perché le tre giudici scrivono testualmente: «Non si può escludere che la parte lesa probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l'atteggiamento dell'imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente». Non ha mentito, insomma: ma ha scambiato la sua percezione con la realtà.
Ad aumentare l'eco della sentenza, un precedente recente: lo stesso giudice che ha presieduto il processo, Maria Bonaventura, ha firmato pochi giorni fa un'altra assoluzione discussa, quella di un bidello che avrebbe toccato il sedere di una alunna «per meno di dieci secondi». Così la domanda che circola (non da ieri, in realtà) è la seguente: la Quinta sezione del tribunale di Roma, specializzata nei reati sessuali, ha una linea troppo garantista nei confronti degli imputati di stupro? Esiste una tendenza a colpevolizzare le presunte vittime più dei presunti colpevoli?
La lettura integrale della sentenza offre spunti interessanti. Ad assolvere l'imputato, direttore all'epoca dei fatti di un noto museo romano dove la giovane donna era stata assunta al bookshop, i giudici in realtà pervengono non tanto per la infelice considerazione sul complesso da sovrappeso della ragazza. A monte, c'è una ricostruzione del processo secondo cui «la versione dei fatti resa dalla donna con molto trasporto e agitazione, già intrinsecamente poco credibile (...) viene notevolmente ridimensionata dalle dichiarazioni di tutti gli altri testi escussi».
Tra le colleghe interrogate in aula, una ha spiegato che «il direttore aveva un modo di fare molto espansivo tendente a un approccio di tipo fisico» e che «era solito anche fare nei confronti dei dipendenti apprezzamenti gentili a livello estetico», nulla di più. Dopo uno degli episodi in cui la ragazza, rimasta chiusa col direttore, sostiene di essere stata sessualmente aggredita, la collega dice di avere saputo che «la porta si era chiusa accidentalmente da sola», e che parlando con la giovane «le chiedeva se il direttore l'avesse toccata in zone erogene o tentato di baciarla ma lei rispondeva assolutamente no».
Ci sono anche testimoni di segno opposto, una dice che la vittima aveva detto anche a lei che «l'uomo aveva provato a infilarle la lingua in bocca»; e un'altra dipendente «si era lamentata delle libertà ed eccessiva confidenza che da troppo tempo e in diverse occasioni il direttore aveva nei suoi riguardi».
Ma a prevalere, e a convincere i giudici, sono i racconti dei colleghi che smentiscono la presunta vittima: che una sera «era saltata in braccio al direttore per dargli un bacio», e dopo avere saputo che giovava a rugby gli aveva detto «mi arrapano i rugbisti». Concludono le giudici: «le dichiarazioni dei testimoni fanno emergere elementi tali da minare l'attendibilità della parte lesa, facendo vacillare il suo narrato».
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