Niente da fare. Anche lontano dal gelo dell'Alaska - dove l'amministrazione Biden aveva tentato a marzo un primo disastroso approccio - le relazioni con la Cina restano burrascose. Lo si è ben capito nel corso dei colloqui di Tianjin, una città a un'ora di macchina da Pechino, dove il vice segretario di Stato, signora Wendy Sherman - la più alta autorità politico diplomatica arrivata in Cina dall'insediamento dell'Amministrazione democratica - ha incontrato prima il suo omologo Xie Feng e poi il ministro degli Esteri Wang Yi. Per capire che i colloqui fossero finiti sin dall'inizio su un binario morto è bastata la dura dichiarazione in sei punti emessa dai portavoce del ministero degli Esteri di Pechino mentre era ancora in corso il primo colloquio con Xie Feng.
Del resto l'approccio della Sherman non è stato sicuramente dei più disponibili. La numero due di Blinken, responsabile dei rapporti con Pechino e l'Asia, è partita lancia in resta mettendo sul tavolo tutte le questioni che, negli ultimi anni, hanno contribuito a raggelare i rapporti tra le due potenze. Entrando a gamba tesa nel divisivo campo dei diritti umani la Sherman ha chiesto innanzitutto il ritorno delle libertà politiche a Hong Kong per poi condannare «le orribili azioni condotte nello Xinjiang», dove continua la deportazione di centinaia di migliaia di musulmani nei campi di rieducazione e nei centri di detenzione. Argomenti e critiche già inascoltabili per la dirigenza del Dragone, a cui il vice segretario di Stato ha aggiunto la denuncia delle minacce a Taiwan delle manovre militari di Pechino nel Pacifico meridionale. Un carico da novanta accompagnato dalla reiterazione delle accuse, già rivolte al ministero della Sicurezza cinese, di aver coperto le incursioni nei server della Microsoft e altri attacchi digitali messi a segno da bande di hacker cinesi. «Che il ministero della Sicurezza assista dei criminali allo scopo di attaccare Microsoft e altre aziende è una questione molto seria», ha detto senza andar troppo per il sottile la Sherman.
Facile comprendere - a questo punto - perché il ministero degli Esteri cinese non abbia neppure atteso la fine dell'incontro tra Xie Feng e la Sherman per distribuire alla stampa l'acido comunicato in sei punti in cui si spiega che una nazione responsabile del genocidio dei «nativi americani» e colpevole di aver affrontato in maniera confusa e disordinata la pandemia non ha alcun diritto di dar lezioni alla Cina. Anche perché - sottolinea il comunicato - sembra che tutta l'azione del governo e della società americana siano rivolte a colpirci, nel tentativo sottilmente velato di contenere e sopprimere la Cina». Una mentalità liquidata come «altamente fuorviante e molto pericolosa» dal ministro degli Esteri Xie Feng: «Gli Stati Uniti vogliono riaccendere il loro senso nazionale identificando la Cina come un nemico immaginario ha affermato Xie Feng, portando subito i colloqui sulla via del conflitto come se, una volta soppresso lo sviluppo della Cina si risolvessero anche i problemi interni ed esterni degli Stati Uniti permettendo all'America di tornare grande e perpetrare la propria l'egemonia».
E così dopo lo scontro di Tianjin appare assai lontana la prospettiva di un incontro a Venezia, in occasione del G20, tra il presidente Xi Jinping e Joe Biden. Anche perché a questo punto lo scontro tra Cina e Stati Uniti non è più un semplice contenzioso politico economico, ma un'autentica guerra fredda.
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