L'unica cosa più difficile di vincere le elezioni è perderle, ma convincendo tutti che si è trionfato, un po' come il diavolo che ha convinto il mondo che non esiste. Perché per vincere le elezioni basta un banale voto in più, ma vincerle per finta è tutta un'altra storia: ci vuole psicologia, raffinata arte di comunicazione e una certa propensione alla narrazione il più arzigogolata possibile. Tutte materie in cui la sinistra italiana, che da sempre prova un altrettanto sinistro piacere nella complicazione, eccelle. Tanto da aver messo a punto uno schema scientifico, come quei tizi che portano ogni potenziale fidanzata allo stesso ristorante, trovandoci puntualmente la ex. Vale la pena analizzare il metodo.
La prima fase è la costruzione di un'epica sottointesa, per cui ogni elezione - Comunali, Regionali, referendum, alzata di mano fra amici per decidere dove si va in vacanza - diventa simbolo di una titanomachia superiore. Lo stolto guarda il dito del voto locale, ma la luna è altrove, ci si batte in una guerra di mondi e culture in cui una piccola croce oggi può far cadere l'oscuro regno di Mordor della destra domani. La gente va a votare pensando di scegliere sindaci e governatori che sistemino le buche, abbassino l'addizionale comunale o aprano più asili, ma in realtà no, si vota sempre sul governo. Anzi, si vota sempre contro il fascismo.
Poi si passa alla costruzione dei personaggi della commedia, con la ricchezza di sfumature di uno sceneggiatore americano dei western anni '50: cowboy buoni, indiani cattivi. Anzi, qui è il contrario, che siamo comunque in epoca di minoranze protagoniste. Ecco dunque puntuale l'elargizione dei santini dei candidati progressisti, a prescindere perbene, colti, umani, e la profilazione di quelli conservatori, che a fine campagna elettorale hanno un curriculum da supercattivi dei fumetti. A tutti si appioppano amicizie sconvenienti, interessi loschi, un passato vicino alla Hitler-Jugend e li si accusa - sempre! - di aver distrutto la scuola e la sanità, perché «la gente fugge per curarsi». Con queste premesse, si passa alla fase tre, quella che interessa meno: il voto.
Qui il diagramma di flusso della sinistra si divarica: se capita di vincere come in Sardegna, allora si spalanca la parata degli onori e degli allori, dove alla beatificazione del candidato segue la sua diretta canonizzazione, con contestuale attribuzione di miracoli e ascensione nell'empireo berlingueriano, fra troni, dominazioni, Zapatero, Tsipras, Ocasio-Cortez e tutte le gerarchie internazionali di condottieri socialisti. Segue esame al microscopio delle eccezionali doti politiche dei leader (Conte e Schlein strateghi inarrivati, esprimono un gioco moderno come il Manchester City di Guardiola) e della maturità dell'elettorato, finalmente consapevole dopo decenni di cecità. Infine, a metà fra profeti millenaristi e meteorologi, gli analisti si affrettano a sancire il cambio del vento e l'ineluttabilità del crollo del regime, prodromico alla resurrezione morale del Paese, dove presto scorreranno - fluidi come il gender - latte, miele e buoni sentimenti.
Se invece si incappa nella sconfitta, ingiusta opzione che la cinica realtà si ostina a far capitare, allora ecco partire la contronarrazione semi-automatica a raffica. La consultazione improvvisamente non è più un referendum sul governo, anzi non lo è mai stata, si votava sui sampietrini e sul costo dei parcheggi mica sulla Meloni; comunque hanno vinto i «gruppi di potere»; ha vinto l'astensionismo voluto dalle destre da sempre allergiche alla partecipazione democratica; ha vinto il Var; pioveva; c'erano le cavallette; e poi in fondo 'sto Abruzzo neanche lo volevamo («Tenetevi il vostro Ohio», come ha scritto Massimo Giannini), ci stanno le pecore e i pastori dannunziani che lascian gli stazzi e vanno verso il mare. Sicuramente a evadere le tasse. E poi comunque «abbiamo riaperto la partita», abbiamo giocato bene, in fondo era solo un'amichevole per la prossima Champions League, le Regionali in Basilicata, quelle sì che contano, quella sì che è la nuova Stalingrado.
Nel frattempo però
parliamo d'altro. La fotografia taroccata di Kate Middleton, per esempio, interesserà più della ripartizione dei seggi a Pescara no? Meglio aprire il sito di Repubblica con quello. Le guerre dei mondi si vincono (per finta) anche così.
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