Gli aguzzini e l'omertà nel carcere dei ragazzi. Il viaggio tra i disperati: "Non c'è mare fuori"

La violenza emersa non poteva essere un segreto, ma nessuno ne parlava. Il Beccaria è una polveriera: rabbia contro rabbia

Gli aguzzini e l'omertà nel carcere dei ragazzi. Il viaggio tra i disperati: "Non c'è mare fuori"
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Un mattino di pochi mesi fa, al primo piano del Beccaria: mezz'ora a giocare a calciobalilla con due ragazzi detenuti. Duri, chiusi, uno con alle spalle storie terribili, ogni tanto una battuta di spirito, e poi di nuovo a rullare sulle manopole del calcetto. Ebbene: neanche in quella mezz'ora, lontano da orecchie indiscrete, i due lasciarono uscire un cenno a quanto accadeva lì dentro, nella stanza lontana dalle telecamere, quando i secondini si scatenavano. Gli stessi secondini con cui si davano del tu, «ciao bro». E che erano diventati i loro aguzzini.

L'aria della violenza si respirava, tra le celle e gli stanzoni degli spazi comuni. Però una violenza tra disperati, detenuti contro detenuti, fragilità pronte ad esplodere in aggressività, e poi i riti dell'iniziazione e della sopraffazione: poche settimane prima un ragazzo arrivato in barcone dalla Libia e approdato al carcere minorile era stato sequestrato e torturato in una cella da tre detenuti della sua stessa età. D'altronde il nonnismo, l'imposizione delle gerarchie, la violenza stanno nella consuetudine del Beccaria da sempre, fin quando la prigione minorile non era in via Calchi Taeggi, tra i campi e i casermoni di Baggio, ma in piazza Filangieri, davanti a San Vittore: e i futuri boss della malavita, da Renato Vallanzasca a Saverio Morabito, vi venivano svezzati al crimine. Gli agenti di custodia sapevano, tolleravano, non partecipavano.

Quanto emerge ora dà i brividi perché una partecipazione così vasta, così corale, degli agenti della «penitenziaria» ai pestaggi e alle torture non poteva essere un segreto, tra le mura del carcere minorile. Solo una omertà diffusa, tenace, può avere consentito che i metodi dilagassero e che nulla trapelasse. Eppure adesso si apprende che i ragazzi pestati qualcosa avevano confidato: «I ragazzi si erano lamentati delle violenze della polizia? Sì, diverse volte, se ne è parlato e se ne è discusso molto attivamente», dice don Gino Rigoldi, per cinquant'anni cappellano. Eppure all'esterno l'immagine è rimasta quella consueta, un po' oleografica, del carcere a fin di bene, i corsi di cucina, la falegnameria, il recupero a una vita migliore.

La realtà, si scopre ora, era diversa. La verità è che il Beccaria era ed è una polveriera, dove quasi il cento per cento dei detenuti ha alle spalle storie di droga, e dove - come raccontava un operatore durante l'ultima visita - «l'impulsività, l'incapacità di affrontare le minime contrarietà, è sempre pronta ad esplodere». A questa rabbia costante, gli agenti del Beccaria non hanno saputo rispondere che picchiando. Rabbia contro rabbia, ma non ad armi pari.

Una volta, al Beccaria, si imparava ad aprire le Cinquecento con lo spadino della Simmenthal. Adesso non si impara più neanche quello, si impara solo che c'è un mondo a cui non si accederà mai che è quello dei diritti e del benessere. Per i ragazzi del Beccaria, le stagioni tv di Mare Fuori sono una caricatura della loro esistenza reale, «magari il carcere - dice uno di loro - fosse quello, sempre in giro, a fare quello che si vuole, a picchiarsi tutti i giorni». Anche picchiarsi, vista da dietro le sbarre, è una forma di libertà.

Ieri, quando la notizia della retata esplode sul web, nelle celle del Beccaria - le chiamano camere, hanno le porte aperte tutto il giorno, ma sempre di celle si tratta - ci sono ottantatrè ragazzi. La grande maggioranza di loro non è ancora stata condannata, è dentro in attesa di giudizio, spesso per la prima volta: la lunga attesa del processo diventa scuola di vita, si scopre che le botte si prendono e si danno, e lo Stato per questi ragazzi avrà per sempre il volto dell'agente che mena.

Ma serve davvero, tutto questo carcere preventivo? «Purtroppo non c'è nessun eccesso nella custodia cautelare - diceva al Giornale il giudice Maria Carla Gatto - sono i loro reati ad essere sempre violenti». Non solo i loro, verrebbe ora da dire.

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