Voci dall'inferno

I racconti di chi prova a lasciare Kabul: "Ho visto una donna morire schiacciata dalla folla"

Voci dall'inferno

“Aveva 35 anni ed era la moglie di un interprete che lavorava ad Herat. È rimasta schiacciata nella calca ed i suoi due figli sono dispersi” è il drammatico racconto di Hamid, uno dei collaboratori del contingente italiano nell’Afghanistan occidentale che è riuscito, dopo cinque giorni di odissea, ad entrare nell’aeroporto di Kabul per mettersi in salvo. Via whatsapp invia al Giornale la foto del sacco bianco e freddo con il corpo senza vita della donna afghana, che è morta soffocata per scappare dal nuovo Emirato talebano.

Sorelle separate, da una parte e dall’altra del muro di cinta dell’aeroporto, che significa salvezza o destino infausto. Il capitano dei corpi speciali diventato ufficiale in Italia che si nasconde in un pozzo e per arrivare all’ingresso dell’aeroporto, dove lo aspettano gli italiani, deve nascondersi dietro le donne con i burqa per passare il posto di blocco dei talebani. E chi non viene fatto passare dai miliziani di Allah neanche con il figlio malato di leucemia. Tutte storie vere e drammatiche della fuga verso la libertà seguite e vissute in prima persona passo dopo passo.

Dopo la caduta di Kabul del 15 agosto e anche prima abbiamo cercato di dare una mano a interpreti, attiviste, collaboratori degli italiani in 20 anni di intervento in Afghanistan, che chiedono disperatamente aiuto. In una dozzina di casi ci siamo riusciti grazie alla nostra Task force d’evacuazione all’aeroporto di Kabul circondato da una massa umana di 20mila persone e al generale Luciano Portolano, che coordina da Roma le operazioni. Alla guida del Comando operativo di vertice interforze dorme poche ore per notte e spesso, attraverso gli interpreti afghani portati in Italia in sicurezza con la prima ondata dell’operazione Aquila, chiama al cellulare chi non ce la fa più, chi ha perso le speranze o è stato picchiato dai talebani per spronarli a non mollare.

Non sempre, purtroppo, va tutto per il verso giusto. Una delle storie più dilanianti è quella delle due sorelle, che assieme hanno tentato disperatamente di arrivare al “gate”, uno degli ingressi dell’aeroporto presidiato dai soldati americani che li aprono e chiudono senza guardare in faccia nessuno. La più anziana, in dolce attesa, era un po’ indietro nel serpentone umano di disgraziata umanità in fuga. La più giovane, di appena 12 anni pochi passi più avanti, era riuscita a passare, ma la sorella è rimasta tagliata fuori per una manciata di metri. Alla fine anche la piccola ha deciso di voltare le spalle alla salvezza ed è tornata indietro per scappare assieme nella valle del Panjshir, l’ultimo lembo di resistenza al potere talebano.
Hamid con la sua famiglia ha cercato per cinque giorni di penetrare la cintura umana attorno all’aeroporto. Il momento più terribile è stato quando la calca ha divorato non si sa quanti afghani, anche donne e bambini, morti schiacciati o soffocati. “Era un inferno, non si riusciva a respirare - racconta il nostro interprete - Il caldo e la ressa ci stavano uccidendo”. Alla fine ce l’ha fatta e in queste ore sta volando verso l’Italia con la famiglia.

Molti non sono ancora in salvo. Fino ad oggi sono stati imbarcati 3200 afghani. J. è finito subito nel mirino dei talebani, che sono andati a cercarlo a casa per obbligarlo a giurare fedeltà all’Emirato, ma lui era già fuggito verso l’aeroporto. Da giorni è bloccato nella calca con il cugino. I militari italiani hanno l’ordine tassativo, nonostante ci siano anche i corpi speciali, di non uscire dal perimetro di sicurezza per portare dentro i più vulnerabili. Talvolta , però, si trova il sistema per fare l’impossibile. “Sono riuscito ad ottenere dagli americani un corridoio verso uno dei cancelli d’ingresso, ma non è mai facile” spiega il generale Portolano.

Più che evacuazione in sicurezza, che sarebbe stata possibile a giugno quando avevamo ancora le truppe ad Herat, tutti sono consapevoli che si tratta del caos, della fuga disperata per la vita. E avere portato in salvo centinaia di afghani in questa situazione è già un miracolo. Qualcuno si arrende: S. è stato fermato in piena notte dai talebani mentre cercava di raggiungere l’aeroporto. Uno dei sette figli è tormentato dalla leucemia e spera di poterlo curare in Italia. “Non dovete passare. Oggi c’è troppa gente andate via” hanno intimato gli studenti di Allah senza alcuna pietà per il ragazzo malato. Diverse donne sono state bastonate brutalmente come rivela l’onlus milanese Pangea, che ieri è riuscita a far evacuare circa 200 persone. “Sono state picchiate dai talebani. Vedere le foto con i loro lividi è stato straziante - ha denunciato l’associazione - I bambini hanno assistito a scene di violenza inaudita e sono molto spaventati”.

Un medico ancora nella calca ieri pomeriggio scriveva messaggi disperati: “Mia figlia è svenuta. Stiamo cercando di passare da oltre 24 ore. Siamo sfiniti”. In serata avrebbe dovuto essere messo in salvo con altri afghani in condizioni critiche.

Il capitano Mohammadi Aijad, diventato ufficiale all’accademia di Modena, ha combattuto con i corpi speciali fino all’ultimo. I talebani gli avevano già decapitato il fratello e messo una taglia sulla testa. Per giorni si è nascosto in un pozzo fino a quando non ha avuto il via libera per andare in aeroporto con la famiglia. Una notte di tensione con messaggi vocali del seguente tenore: “Abbiamo dovuto cambiare cancello d’ingresso passando attraverso un posto di blocco dei talebani. Nel minivan mi sono nascosto dietro le donne coperte dal burqa. Se mi avessero visto sarei morto”.

Ziad, ex tenente dei carabinieri, che vive da anni in Italia è nipote di Bismillah Khan, il ministro della Difesa del governo sconfitto. Quando Kabul è caduta era circondato con lo zio dai talebani. Poi è riuscito a dileguarsi e andare a prendere la famiglia nascosta in casa di amici. Per giorni si è immerso nel girone dantesco della massa umana attorno all’aeroporto.

Alla fine è passato e una mattina sul telefonino manda una foto di lui e le sue tre bambine distrutte e sedute per terra, ma finalmente in salvo. Il messaggio non lascia dubbi: “Siamo dentro. Grazie di cuore”.

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