Non siamo al «sopire, troncare» di manzoniana memoria, ma il lessico burocratico di Ursula von der Leyen (nella foto) è un bell'esempio su come aggirare il nocciolo della questione. E dopo gli 800 miliardi di euro che secondo Mario Draghi andrebbero reperiti ogni anno per impedire che l'Europa affondi, il nocciolo della questione riguarda la futura emissione di Eurobond.
A quanto pare, una parola tabu per la rieletta presidente della Commissione Ue. Secondo la quale l'Europa ha sì «chiari bisogni in termini di investimento e un finanziamento comune sarà necessario per i progetti comuni europei», ma deve reperire queste risorse «attraverso i contributi nazionali o tramite nuove risorse proprie. L'intero bilancio (comunitario, ndr), o la maggior parte del bilancio, è costituito da contributi nazionali, e da risorse proprie».
Nonostante la posta in gioco prospettata dall'ex capo della Bce, von der Leyen sembra aver dimenticato la lezione della pandemia. Quando il crollo dell'economia conseguente ai lockdown collettivi, provocò una reazione a Bruxelles sfociata nel Recovery Fund da 750 miliardi che, in modo seppur parziale, mutualizzava il debito per la prima volta nella storia dell'Unione. Draghi prospetta ora un altro tipo di emergenza, ma probabilmente ancora più insidiosa poiché l'unico antidoto contro l'incapacità di innovare e l'impossibilità di investire è inoculare dosi massicce di denaro nelle vene dell'ormai obsoleto sistema economico europeo attraverso l'emissione di debito comune garantito dall'Eurotower.
Ursula sa bene che è questa è la via da percorrere. Già all'inizio del 2023, come contromossa ai quasi 900 miliardi di dollari di sussidi per la tecnologia pulita inseriti da Joe Biden nell'Inflation Reduction Act, l'ex ministro tedesco della Difesa aveva indicato che entro l'estate sarebbe stato varato un fondo sovrano europeo, necessario per sorreggere l'impalcatura del Green Deal Industrial Plan una volta completata la revisione del bilancio pluriennale. Insomma, semaforo verde agli Eurobond.
Da allora, però, non si è mossa una foglia. E un motivo c'è: la netta opposizione all'idea manifestata fin da subito dai Paesi rigoristi, con Germania e Paesi Bassi a motivare il nein con la liquidità ancora inutilizzata del Next Generation Ue. Alla fine, è stato partorito Step, la cui dotazione finanziaria è così lontana dalle cifre indicate da Draghi da non andare incontro all'esigenza, sottolineata dalla stessa von der Leyen, di supportare la nostra industria attraverso la decarbonizzazione e l'innovazione, agendo su tutti i livelli a nostra disposizione», dall'abbattimento dei costi energetici fino alla riduzione della burocrazia.
Fresca di rinomina, Ursula pare ora non aver più fra le proprie priorità il varo di obbligazioni comunitarie. Forse è andata a segno l'operazione di moral suasion messa in piedi dai liberali tedeschi («Siamo del parere che non si dovrebbero assumere nuovi debiti comunitari», aveva detto Marie-Agnes Strack-Zimmermann), decisivi per la sua riconferma?
Per procedere con finanziamenti comuni, ha sottolineato ieri von der Leyen, dev'esserci la «volontà
politica degli Stati membri. Volontà che a molti Paesi manca. Non a caso, Draghi ha chiesto che venga «esteso a più aree» il voto a maggioranza qualificata. E' una strada a ostacoli, ma è l'unica che può condurre agli Eurobond.
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