
Una porta per negoziare verrà lasciata comunque aperta, ma la Cina non intende piegarsi e lotterà fino alla fine. È questo il messaggio di sfida che Pechino manda agli Stati Uniti dopo che Donald Trump, pressato da consiglieri sempre più preoccupati, ha accettato di sospendere per tre mesi i dazi «compensativi» che aveva imposto a quasi tutto il mondo, facendo però una cospicua eccezione: la Cina, appunto, che ha osato reagire con controdazi dell'84% sulle merci americane alle tariffe del 104% che le erano state inflitte. E che a causa di questa reazione si ritrova ora a dover fare i conti con un super dazio addirittura del 145% sui suoi prodotti diretti negli States (125 più 20 «per il Fentanyl»).
È ormai chiaro che il Dragone cinese è il bersaglio principale della guerra commerciale scatenata da Trump, e lo è altrettanto che Pechino intende difendersi. Xi Jinping sapeva che il ritorno alla Casa Bianca del presidente, reduce nel suo primo mandato da una battaglia prioritaria contro la Cina, avrebbe potuto comportare un simile scenario estremo. E si è preparato. Oggi Xi ritiene di disporre degli strumenti non solo per resistere a quella che considera un'intollerabile forma di bullismo, ma per controbattere con successo.
Se Trump si dice convinto che la Cina «vuole fare un accordo, ma proprio non sa che strada percorrere», che «con Xi troveremo una soluzione», a Pechino la vedono diversamente. C'è in ballo per Xi un fattore che il presidente-tycoon, con la sua tipica attitudine da businessman che vede solo il denaro, tende a sottovalutare: l'orgoglio nazionale cinese, che non tollera ai suoi danni le prepotenze che è abituato a infliggere laddove può agli altri. Per Pechino questo non vale meno dei circa 500 miliardi di dollari l'anno d'interscambio commerciale con gli Usa. Questo nazionalismo è stato sapientemente alimentato dal partito comunista cinese durante la presidenza Biden, ben sapendo che Trump sarebbe potuto tornare, preparando il terreno in patria per una battaglia dura con un rivale che non vuole più essere un partner, bensì un avversario dichiarato.
Ecco dunque che Pechino non manca di ribadire la propria disponibilità al dialogo, ma al tempo stesso muove le sue pedine per trasformare le gravi difficoltà causate dalle scelte aggressive di Trump in opportunità per rafforzare le sue posizioni. Che non sono solo di natura economica. Xi è pronto a una guerra d'attrito di lunga durata con gli Usa. A Pechino sanno bene che un'escalation di dazi e controdazi sconvolgerà l'economia cinese, con un'ondata di fallimenti e la perdita di milioni di posti di lavoro. Xi però scommette sulla differenza fondamentale tra il suo sistema autocratico e quello democratico americano, basato su libere elezioni che ogni quattro anni rimettono in discussione la leadership politica: ovvero, su quella stabilità imposta con la forza che ha permesso alla Cina di resistere ai disastri economici del Covid e a otto anni di guerra commerciale con gli Usa, sia pure su scala ben inferiore.
Al tempo stesso, Pechino cerca per ora con scarso successo - di organizzare un fronte globale favorevole al libero mercato, presentandosi come affidabile partner in primo luogo a quei Paesi
vicini, come il Vietnam, la Cambogia o il Bangladesh, che hanno puntato tutto sugli Stati Uniti e ora si ritrovano bastonati. È il paradosso causato da una destra americana che ha dimenticato la grande lezione di Ronald Reagan.
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