«È assolutamente pacifico che il trasferimento delle provette all'ufficio corpi di reato le rese inservibili per ulteriori analisi». È questa l'unica soddisfazione che Massimo Bossetti, all'ergastolo per l'omicidio nel 2010 della tredicenne Yara Gambirasio, riceve ieri dal provvedimento depositato dal tribunale di Venezia, chiamato a fare giustizia nell'ultima tappa della lunga vicenda processuale per il delitto di Brembate Sopra.
Stavolta sul banco degli indagati c'era Letizia Ruggeri, il pm che su quel crimine ha scavato con ostinazione incrollabile e che ha fatto arrestare e condannare all'ergastolo Bossetti. Dal giorno della condanna, Bossetti e i suoi difensori non hanno mai smesso di battagliare. Al centro di tutto, le provette col Dna trovato sul corpo di Yara, unica vera prova contro il muratore di Mapello: che però non ha mai avuto la possibilità di controesaminare i reperti che lo hanno incastrato.
A portare la Ruggeri sotto inchiesta per frode processuale era stata l'accusa rilanciata da Bossetti e dai suoi legali anche nel documentario Netflix «Il caso Yara», che - con indubbia efficacia - è tornato a sollevare dubbi sulla reale colpevolezza dell'uomo che sta scontando l'ergastolo nel carcere di Bollate. È l'accusa alla Ruggeri di avere fatto spostare il 21 novembre 2019 le 54 provette col Dna residuo dall'ospedale San Raffaele, dove erano conservate a -80 gradi, all'ufficio corpi di reato del Tribunale di Bergamo, dove - come conferma la sentenza di ieri - divennero subito inutilizzabili per qualunque nuova analisi.
Sapeva, la Ruggeri, che in quel modo Bossetti non avrebbe mai più potuto analizzarle? Lo sapeva, dice la sentenza: il comandante dei carabinieri di Bergamo, Paolo Storoni, ha testimoniato che «i Cc fecero notare alla dottoressa che si trattava di materiale richiedente macchinari per la conservazione sotto zero», ma che «gli furono confermate le disposizioni». E la Ruggeri sapeva bene che in tribunale a Bergamo non c'erano frigoriferi.
In quelle provette c'era qualcosa di ancora analizzabile? La sentenza di ieri riporta le testimonianze del perito della Procura Giorgio Casari e del colonnello Giampietro Lago, del Ris di Parla, che dicono: «certamente si disponeva ancora di materiale genetico sufficiente a ripetere l'esame». Lei, la pm Ruggeri, nei verbali dà versioni contraddittorie: «Non ho mai detto che non possiamo fare nuovi esami perché non c'è più materiale nelle provette». I pm di Venezia le contestano che nell'interrogatorio precedente aveva detto «mah, non c'è dentro quasi niente», lei dice «intendevo dire che i campioni migliori sono stati utilizzati». Quale fosse la verità, ormai non si saprà mai. Comunque, dice la Ruggeri a verbale, «non ci interessa se si degradano, a prescindere dal fatto che siano buone o non buone»: perché altre analisi non servono, il colpevole sappiamo già chi è.
È questo, alla fine, il motivo per cui il giudice di Venezia proscioglie la collega bergamasca: era sicura che «nuove analisi non avrebbero potuto mettere in
discussione l'individuazione certa del Bossetti, avendo formato questo convincimento sulla base delle sentenze». Lei prima ha convinto i giudici, poi i giudici hanno convinto lei. Il cerchio è chiuso. Il caso Yara anche.
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