Non occorre l'acutezza visiva di un'aquila per scorgere l'interesse russo dietro la fiammata di violenze nel Kosovo che rischia di trasformare in incontrollabile incendio la brace, sempre latente, dell'odio etnico nei Balcani. Se poi ci si mette perfino Novak Djokovic a blaterare slogan nazionalistici...ma lasciamo stare le sciocchezze sfuggite a un grande dello sport: qui di davvero grande c'è il pericolo che si apra un nuovo fronte europeo di quella guerra di fatto all'Occidente che Vladimir Putin ha aperto invadendo l'Ucraina quindici mesi fa.
Come sempre nelle contese nazionalistiche, e più che mai nei Balcani che da secoli ci vivono immersi, ogni parte coinvolta ci mette del suo. Nello specifico, gli albanesi kosovari non mancano di alimentare animosità anche attraverso simboliche stupidaggini (si pensi alla «disfida delle targhe»), oltre a interpretare il sostegno americano e della Nato come un diritto a spadroneggiare sulla minoranza serba. Ma un conto sono i campanilismi di piccolo cabotaggio, un altro i disegni, di ben diversa ampiezza, di una grande potenza come la Russia.
E allora è inutile girarci intorno: al Cremlino, rilanciare il nazionalismo serbo in chiave anti occidentale fa un gran comodo nel momento in cui l'Ucraina accentua al massimo, trasformando la sua resistenza all'aggressione in contrattacco, il suo «tradimento» dell'immaginario mondo slavo-ortodosso di cui Putin vorrebbe rimettersi al comando. Non solo: minacciare, come ha appena fatto il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, «una grande esplosione nel cuore dell'Europa», in nome della difesa dei diritti del popolo serbo, serve a rilanciare il tentativo di minare la compattezza del fronte occidentale che sostiene Kiev. Il punto debole, come sempre, viene individuato e stimolato da Mosca in opinioni pubbliche europee occidentali che temono di ritrovarsi la guerra in casa, non comprendendo che aiutare gli ucraini (e avvicinare i Balcani all'Europa) è in questo drammatico frangente l'unica via per evitarlo nel prossimo futuro.
La longa manus di Putin, insomma, è visibile in un tentativo di allontanare il già ben disposto presidente serbo Aleksandar Vucic dal sentiero che conduce a Bruxelles e di alimentare la tensione in una regione che sbocca potenzialmente fin sul Mediterraneo.
E precisamente sulle coste adriatiche di quel Montenegro dove già pochi anni fa era stato tentato invano un putsch filorusso. Prima del recupero dell'indipendenza di Podgorica nel 2006, la Federazione serbo-montenegrina aveva su quelle coste il suo sbocco al mare. Qui oggi sventola la bandiera della Nato, domani - spera Putin - chissà.
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