Il "politically correct" che spegne la musica

La storia del pop rischia la censura. L'ultima follia della "cancel culture"

Il "politically correct" che spegne la musica

Poi c'è la tagliola del politically correct. Che cosa sarebbe la storia della musica leggera popolare (popolare, quindi strafamosa) se fosse giudicata dal codice del politicamente corretto anno 2021? Un elenco di processi lungo settant'anni. Fred Buscaglione, ad esempio, sarebbe accusato per Che bambola del 1955 («Le grido piccola, dai, non fare la stupida») tipico esempio di «cat calling», ossia di molestia verbale a donne incontrate per strada. Il professor Roberto Vecchioni, un manifesto di integrità artistica e rigore etico, rischierebbe l'etichetta di misogino perché voleva «una donna con la gonna» e ipotizzava addirittura l'esistenza di donne senza cervello: «Prendila te quella col cervello, che s'innamori di te quella che fa carriera, quella col pisello e la bandiera nera, la cantatrice calva e la barricadera» (Donna con la gonna, 1992). Vasco non ne parliamo, misogino e razzista in un colpo solo per il verso «È andata a casa con il negro, la troia!» da Colpa d'Alfredo del 1980.

L'elenco è sterminato e va dai Watussi «altissimi negri» di Edoardo Vianello a Negro di Marcella Bella («Quando sei entrato nel mio mondo, negro, mi sembravi l'angelo più biondo», 1975) fino, persino, a un brano antirazzista come Vorrei la pelle nera di Nino Ferrer, che potrebbe finire censurato per il verso «Come si fa ad arrostire un negretto ogni tanto con la massima serenità».

E mica soltanto in Italia. Anche all'estero la «cancel culture» potrebbe sbianchettare canzoni su canzoni. E lasciamo perdere, per carità di patria, i testi hip hop, che sono golosi di misoginia o peggio. Anche superstar come i Rolling Stones potrebbero essere tagliuzzati, ad esempio, per il testo di Some girls del 1978: «Le ragazze nere vogliono solo essere scopate tutta la notte». Percorso netto per i Guns N'Roses che nel 1988 cantavano One in a million con gli espliciti «Polizia e negri levatevi dai piedi» e «immigrati e froci non hanno senso per me» (non a caso questo brano è stato escluso dalle ultime ristampe). E l'elenco potrebbe continuare con centinaia di altri casi. In sostanza la storia della musica leggera rivista con la lente del politicamente corretto ne uscirebbe amputata come, peraltro, accadrebbe con la letteratura, la pittura, la drammaturgia, la cinematografia e qualsiasi altra forma artistica. E, visto che la Disney ha vietato ai minori di sette anni la visione di Dumbo, Peter Pan e Gli Aristogatti tacciati di razzismo, non è detto che anche il pop non sia presto anagraficamente o totalmente censurato.

In fondo, con questo metro di valutazione è un attimo pensare di vietare un testo come Lasciami leccare l'adrenalina degli Afterhours di Manuel Agnelli per il verso «Forse non è proprio legale sai, ma sei bella vestita di lividi» del 1997. Sia chiaro: qualsiasi apologia di reato o discriminazione è da bloccare e punire, senza se e senza ma. Dopotutto ci sono le leggi adatte in ogni parte del mondo occidentale, e non solo. Ma - si conceda il confronto - un conto è un discorso ufficiale, un altro è un'opera d'arte. Un conto è un pensiero politico o un manifesto d'intenti. Un altro è una canzone rock o pop o reggae o quel che volete voi, che è legata al proprio tempo ed è valutabile con le unità di misura di quel tempo.

Per capirci, i versi della Canzone della Terra di Lucio Battisti del 1973 oggi potrebbero avere un'altra lettura rispetto a quella del periodo di pubblicazione: «Voglio trovare il piatto pronto e il bicchiere dove bere, donna mia devi ascoltare». Filtrato dalle maglie del politicamente corretto, sembrerebbe un inno maschilista mentre, come tutti sanno, Lucio Battisti e Mogol sono tra i più alti e nobili cantori dell'amore nella nostra canzone popolare.

Eppure la prospettiva è che anche la letteratura musicale possa subire presto la ghigliottina politicamente corretta davanti alle tricoteuses che sui social scatenerebbero applausi o reprimende da migliaia di clic. Insomma, un'ecatombe. Però la rilettura dei testi delle canzoni dovrebbe essere contestualizzata e garantire tutti i contrappesi storici e sociali che ne portarono alla scrittura.

Come d'altra parte si dovrebbe fare per tutte le forme artistiche, che nel tempo sono assorbite dalla cultura popolare non come veicolo di messaggi, ma come testimonianza di un'epoca passata, lontana o lontanissima.

Altrimenti il rischio è di trovarsi a cantare «Fatti mandare dal genitore uno a prendere il latte di soia» invece che uno dei più famosi ritornelli degli Anni Sessanta che hanno colorato di allegria l'Italia del boom.

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