Due nascite e due decessi. È lo stato anagrafico di Pompei. Sorse come insediamento osco, coetaneo di Roma, crocevia commerciale tra Cuma, Nola e Castellamare di Stabia.
La prima morte fu violenta, sotto il magma del Vesuvio nel 79 dopo Cristo. I picconi dei primi scavatori la rimisero in luce nel 1748. Fu un cesareo travagliato. Secondo alcuni, fu anche l’inizio del secondo trapasso, più lento e più crudele. Sotto il mantello di lava, le meraviglie antiche erano congelate in un letargo perfetto. All’aria e alla vita, si sgretolano. Come è accaduto alla cosiddetta Casa dei gladiatori, crollata ieri mattina.
Ma allora, i due quinti della Pompei ancora sigillata se la passano meglio del museo antiquario classico a cielo aperto più famoso del mondo? Bella domanda. Che si innesta sulla più generale questione di come gestire l’eredità monumentale del passato. Qual è il decalogo deontologico dell’archeologo? C’è chi sostiene che i gioielli di Fidia strappati al Partenone sono ancora patrimonio dell’umanità solo perché lord Elgin li ha messi in cassaforte al British Museum. In loco, sarebbero farina di marmo nello smog mefitico di Atene. Heinrich Schliemann demolì la collina di Hissarlik perché voleva arrivare al cuore d’oro di Troia, al nucleo di autenticità di Omero, ai diademi di Priamo, che fecero della moglie Sophie un’Elena rediviva, almeno in fotografia.
Altri tempi, archeologia di rapina. Oggi si procede con la stratigrafia, che mentre sgretola l’involucro di terra e roccia, registra scientificamente ogni parametro. La verità di un sito diventa grafico, libro, rigido manuale. Sir Arthur Evans (1851-1941) andò oltre. A Creta, ricostruì la Cnosso minoica, con il rosso sgargiante dei pilastri in cemento. Voleva riprodurre un’atmosfera, far fare ai visitatori un tuffo nel passato. Gli diedero la croce addosso: lo scienziato non scimmiotti l’architetto antico. Suo compito è preservare il manufatto, la fantasia di chi contempla i tesori smozzicati farà il resto.
Amedeo Maiuri, direttore degli scavi di Pompei fra il 1924 e il 1961, restaurò facciate e fondamenta con materiali moderni, fra cui il cemento e l’acciaio. Ma il tufo originario non volle saperne di coesistere: disfacimenti, crepe e crolli furono innescati dalle reazioni chimiche alcaline. I materiali ricostruttivi, inoltre, pesavano troppo, con tensioni strutturali insostenibili sul fragile esistente. Vittorio Spinazzola, negli stessi anni, aveva avuto un’idea forse meritevole e poetica: far sì che la vegetazione originale ombreggiasse le mura rialzate di Pompei. Proprio in Via dell’Abbondanza, indirizzo della fu Casa dei Gladiatori, studiando le radici vegetali preservate dalle ceneri vulcaniche, ripiantò la scenografia vegetale di un tempo. Ai visitatori fu dato di passeggiare tra i giardini e le ombre che protessero dalla canicola i pompeiani dell’epoca di Nerone.
Ma le edere aggrediscono le pareti e gli affreschi, le radici serpeggiano tra selciati e fondamenta, minandole, le piante parassite (Henri de Saint-Blanquat ne classificò oltre trenta specie) condannano gli interni alla muffa. E gli attentati non finiscono qui. La luce del sole cuoce le venerande pitture. L’acqua piovana e le infiltrazioni sotterranee sono trapani inarrestabili. Ci si mettono anche gli animali, come i piccioni, che sono a buon diritto difesi dagli animalisti, ma bombardano di acido tessuti urbani indeboliti dagli elementi e dai secoli. Furti e vandalismi, favoriti da una custodia aleatoria, impoveriscono quotidianamente il patrimonio.
Che fare? Il restauro moderno può gestire la difesa a oltranza. I dipinti si preservano con metodiche chimiche all’avanguardia. A costo stratosferico. Gli specialisti calcolano in 335 milioni di dollari il prezzo della salvezza. Al cambio attuale fanno quasi 240 milioni di euro. Più di un paio di jackpot al superenalotto. Una bella fettina di Pil.
Intanto, il mirmillone Samus, freme di sdegno nella sua tomba di lava.
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