Il ponte aereo per salvare i nostri interpreti afghani

Anche l'Italia darà asilo a 500 collaboratori che lavoravano a fianco delle nostre truppe

Il ponte aereo per salvare i nostri interpreti afghani

«Nelle prossime settimane, non più tardi del () giugno, verrà comunicata una data, un orario e un luogo in cui dovrete presentarvi con i membri del nucleo familiare che viaggerà con voi». L'ordine di evacuazione del Comando operativo interforze è indirizzato ai 500 collaboratori afghani e parenti stretti, che porteremo in Italia in vista del ritiro della Nato. «Aquila» è il nome in codice dell'operazione, che prevede un ponte aereo da Herat e Kabul per salvare i collaboratori locali dalle rappresaglie talebane. In dicembre una cinquantina di interpreti, fra la base di Herat e la capitale, erano stati messi alla porta nella prospettiva del ritiro del contingente italiano ridotto a 800 uomini. Il Giornale, con l'appoggio di diversi ufficiali che hanno servito in Afghanistan ed esponenti della società civile, ha denunciato il caso raccogliendo il grido di aiuto degli afghani che si sentivano traditi e abbandonati. Il generale degli alpini, non più in servizio attivo, Giorgio Battisti, che si è battuto per evitare il tradimento, conferma: «L'Italia, tramite i ministeri della Difesa, Esteri e Interno ha previsto di recuperare, come altre nazioni, i nostri local worker afghani (interpreti, personale amministrativo, addetti alle pulizie) con i familiari di primo grado di Herat e Kabul (circa 500 in totale) con una missione dedicata». Per la quarantena anti Covid gli afghani verranno ospittati dall'Esercito in Abruzzo, Calabria e Lombardia. Marina e Aeronautica si sono defilati.

Il rischio vendette, quando le truppe americane e della Nato se ne saranno andate a metà luglio, in anticipo rispetto alla scadenza dell'11 settembre, riguarda tutti i contingenti. Solo per gli Stati Uniti sono 18mila gli afghani, comprese le famiglie, che hanno fatto richiesta del visto di immigrazione speciale. Il ministero della Difesa inglese ha già portato in salvo 450 afghani, ma gli ufficiali che hanno servito in Afghanistan stimano che assieme ai familiari siano 30mila ad avere bisogno di aiuto. «L'iniziativa è umanitaria perché rischiano di essere eliminati come traditori o collaboratori degli infedeli (che saremmo noi). Esponenti di spicco dei talebani lo hanno dichiarato a più riprese», spiega Battisti.

Alcuni interpreti, che hanno già un posto sugli aerei italiani, sono preoccupati per l'immediato futuro: «Ci aspettiamo di non venire considerati, e conteggiati come migranti illegali una volta in Italia». Nel 2014-2015, quando iniziò un primo ridimensionamento del contingente, si riuscì a evacuare 130 afghani. Una volta giunti in Italia, entrarono nel circuito vizioso dell'allora Sprar, abbandonati a se stessi come se fossero richiedenti asilo giunti sui barconi e non utilizzati per le loro capacità. «Spero vivamente che questi fratelli afghani, che tanto hanno fatto e rischiato per i nostri soldati, una volta in Italia non vengano alloggiati in centri di raccolta con gli immigrati irregolari poiché rischiano di subire maltrattamenti e soprusi», sottolinea Battisti.

Della prima evacuazione molti hanno abbandonato, delusi, l'Italia e ancora oggi qualcuno è costretto a mendicare aiuti dalle associazioni caritatevoli. «Noi interpreti abbiamo lavorato oltre un decennio con gli italiani - spiegano - significa che siamo abituati alla vostra cultura, tradizione e costumi». Non portiamo in salvo dei migranti sconosciuti raccolti sui gommoni, ma collaboratori qualificati e integrati. «La maggior parte di noi ha una laurea e possiamo dare un prezioso contributo a qualsiasi organizzazione in Italia - spiegano gli interpreti -. Non agiremo e non faremo nulla contro i valori della società italiana».

Nella ritirata dall'Afghanistan c'è il rischio che fra i servitori leali del nostro Paese qualcuno resti tagliato fuori, come era già accaduto sei anni fa. Il Giornale riceve appelli disperati di afghani che hanno lavorato per anni al fianco degli italiani, come i carabinieri nel centro di addestramento di Adraskan. «La Nato lascia l'Afghanistan e arriveranno i talebani, che ci odiano e ci toglieranno la vita. Aiutateci per i nostri figli», scrivono F. N. e B.S.. Anche i venditori che hanno messo in piedi negozi e mercatini nella base di Camp Arena a Herat sperano in un aiuto. «La Germania, a Mazar i Sharif, garantirà il visto a tutti gli afghani che hanno lavorato con i tedeschi - si legge in un appello -. I francesi hanno fatto lo stesso. Le nostre famiglie sono minacciate. Quando le truppe se ne saranno andate, i talebani prenderanno il controllo dell'Afghanistan».

La situazione sul terreno è allarmante. Gli avamposti nell'entroterra di diverse province vengono abbandonati dopo attacchi e minacce. Gli insorti chiamano sul cellulare i comandanti governativi con un messaggio molto chiaro: «Resa o morte». In maggio, 26 avamposti e basi sono passati in mano dei talebani nelle province di Laghman, Baghlan, Wardak e Ghazni. A Kabul l'ambasciata australiana chiude i battenti e gli addetti militari stranieri sono stati invitati a lasciare il Paese dopo l'estate. Il Pentagono si prepara a evacuazioni e ponti aerei d'emergenza come ai tempi della sconfitta in Vietnam.

«La situazione in Afghanistan, a seguito del repentino ritiro delle forze straniere e del disimpegno della comunità internazionale, rischia di subire una terribile accelerazione - spiega Battisti -, riportando il Paese nell'anarchia scaturita dal ritiro dei sovietici nell'inverno 1988/1989 o come è avvenuto a Saigon nell'aprile 1975».

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