Churchill diceva: «In guerra, risolutezza; in vittoria, magnanimità». Sono i due principi su cui Israele sta giocando la sua esistenza e - in caso di successo - la pace. La posta è enorme e il volto teso del ministro della Difesa Barak nell’annunciare sabato sera al Paese la decisione di inviare l’esercito a Gaza lo dimostrava. Cerchiamo di capire ciò che sta succedendo.
1. Lo scopo strategico di Israele non è solo la garanzia della sicurezza fisica - con o senza ausilio internazionale - di un milione di civili che vivono nel sud del Paese. È la rottura dell’immagine di potere di un fondamentalista islamico convinto di aver scoperto nell’attaccamento alla vita dell’avversario (ebrei, europei, americani, indù) l’arma segreta della vittoria. Israele viene visto come un baluardo numericamente insignificante, ma decisivo per l’imperialismo islamico, come Cipro veneziana lo fu per i turchi sulla strada della conquista di Vienna (e di Roma) nel XVII secolo. Non è detto che la cacciata (improbabile) di Hamas da Gaza dia a Israele molto più di una lunga tregua. Certo è che un Hamas sopravvissuto, anche se malmenato, all’offensiva terrestre di Israele, rappresenterebbe la probabile fine dello Stato ebraico democratico come di quello di un futuro Stato palestinese non fondamentalista.
2. La logica di questa situazione spiegherebbe la contraddittoria posizione del mondo arabo che in sordina accetta Israele come baluardo militare (quello economico è il prezzo del petrolio al ribasso) contro l’Iran sciita nemico giurato dell’islam sunnita (maggioritario). Spiega, in barba alla volontà della «strada araba» il «tradimento» egiziano, saudita, giordano, libico, algerino, marocchino e palestinese di al Fath senza parlare dell’appoggio di Washington. In Europa, che non sembra ancora guarita dal complesso di Monaco, i due governi che hanno compreso il significato di questa guerra sono paradossalmente i due gradi nemici di ieri: Germania e Cechia.
3. La stessa logica potrebbe aiutare a comprendere il comportamento di un triumvirato debole e riottoso composto da un premier sfiduciato, ma tecnicamente al potere (Ehud Olmert), un capo del partito Kadima e ministro degli Esteri Livni (onesta ma considerata incapace) e un ministro della Difesa laburista, Ehud Barak, militarmente abile ma politicamente fallimentare, uniti di fronte a una decisione politicamente non meno gravosa di quella presa da Ben Gurion nel proclamare lo Stato nel 1968. Agiscono assieme e col sostegno del Paese perché.
Prima di tutto perché, come Ben Gurion, non poteva non reagire; in secondo luogo, perché contrariamente a Ben Gurion hanno dietro di sé una macchina militare rimessa a nuovo a seguito della guerra del Libano e che dal 1967 politici corrotti, generali tronfi di vittoria e intellettuali poveri di ideali avevano lasciato arrugginire nell’illusione di poter creare una specie di California israeliana nel Medio Oriente e sulle spalle dei palestinesi. Perché, contrariamente alla guerra del Libano, disponevano di un piano operativo preciso con due scopi apparentemente precisi. Uno massimalista (auspicabile, ma probabilmente irrealizzabile con le sole armi) di evizione di Hamas da Gaza. Uno minimalista mirante a obbligare Hamas a chiedere il rinnovo della tregua (con aggiunte) che aveva orgogliosamente rotto inimicandosi il Cairo. Un successo del genere equivarrebbe per Hamas ammettere la sconfitta sul piano dell’immagine e della fede. In quanto mancanza (anche solo temporanea) di appoggio divino che per i «volontari della morte» rende la loro causa invincibile.
4) Un successo del genere non sarebbe una vittoria classica o definitiva, ma conquista di sufficiente spazio locale per vivere qualche anno in pace; di spazio internazionale per permettere alle lotte intestine islamiche di svilupparsi e per permettere alle potenze di ritrovare il coraggio di affrontare l’Iran.
Sarebbe errato credere che interessi personali ed elettorali non pesino sul comportamento di questa troika i cui membri non si amano particolarmente.
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