LA PRECISAZIONE

Gentile direttore,
subito dopo l’elezione a presidente della Corte costituzionale, ho ringraziato i giornalisti presenti a Palazzo della Consulta perché, attraverso l’esercizio del diritto di informazione, rendono possibile a se stessi e a tutti i cittadini l’esercizio di un ancor più importante diritto fondamentale, il diritto di critica. Non ho quindi alcuna intenzione di replicare al profilo che mi ha dedicato Filippo Facci (sabato 15 novembre). Sono però costretto - come cittadino, quale mi firmo, senza coinvolgere il mio attuale ruolo istituzionale; ma proprio per rispetto all’organo costituzionale che oggi rappresento - a rettificare tre gravi inesattezze, che continuano a circolare (soprattutto le prime due) nonostante le numerose smentite e precisazioni, più volte apparse anche su il Giornale.
Non sono mai stato difensore di Romano Prodi (del quale pure sono amico fin dai tempi dell’Università Cattolica e «dei preti dell’Augustinianum», per dirla con Facci), quindi il 4 luglio 1993 non ero e non potevo essere con lui alla Procura di Milano «in veste di amico e di legale».
Non sono mai stato parlamentare e da ministro non potevo certo «approvare una legge ad personam che immunizzava chi l’aveva appositamente nominato», cioè Romano Prodi. La riforma dell’abuso d’ufficio del 1997 neppure fu proposta da me o da alcun altro ministro del governo Prodi I: nacque da un’iniziativa parlamentare ripresa dalla precedente legislatura, con numerosi disegni di legge della maggioranza e dell’opposizione. E dichiarai in aula che il governo si sarebbe astenuto da qualsiasi intervento, proprio per le implicazioni politiche del provvedimento. Le cui motivazioni, peraltro, erano ben più articolate di quanto non si dica. Per maggiori particolari rinvio a un mio intervento ospitato proprio da il Giornale il 14 gennaio 2002, che il direttore ricorderà bene: fu infatti originato da un’inchiesta sul caso Sme, firmata dall’allora inviato Mario Giordano con Osvaldo De Paolini, nella quale si sostenevano argomenti analoghi. Più autorevolmente, anche il presidente della commissione Giustizia della Camera nella XIV legislatura, l’onorevole Gaetano Pecorella, diede atto di mie precisazioni sulle stesse questioni, come risulta dal resoconto parlamentare delle Commissioni del 12 settembre 2002 (che allego per memoria).
Quanto al caso Priebke, non «inventai» affatto una «fantomatica richiesta di estradizione dalla Germania». La richiesta c’era, da alcune settimane, come ho sempre detto e documentato, e come avrebbe poi accertato il Tribunale dei ministri; anche se poi la Germania non ritenne opportuno coltivarla. Ma in quel momento il ministro della Giustizia aveva il potere e il dovere di occuparsene, e sarebbe stato ben grave se non lo avesse fatto in materia di cooperazione giudiziaria e di convenzioni internazionali, tanto più nei confronti di un Paese dell’Unione europea.
Ringrazio per l’ospitalità e saluto cordialmente.


Esimio professore,
non si vuole approfittare dell’ultima parola, ma solo precisare che le «tre gravi inesattezze» a nostro dire non ci sono. Nel primo caso, non abbiamo mai scritto che Lei si recò a Milano come difensore di Romano Prodi (che fu sentito come teste, dunque non abbisognava di un difensore) ma solo del suo «esserci in veste di amico e di legale»: forma sbrigativa, questo sì, per descrivere una vicinanza che non vorrà negare. Prendiamo atto, nel secondo caso, che la legge ad personam che immunizzò Romano Prodi nel 1997, dopo l’accusa di abuso d¹ufficio in ordine alla cessione della Sme, non fu dovuta a una Sua iniziativa e che si limitò a condividerla.

Permetterà, infine, che non muti di una virgola il nostro giudizio circa il Suo operato nel caso Priebke, quando l’espressione «inventare» sta a «inventarsi» e dunque prendere a pretesto una richiesta di estradizione dalla Germania (peraltro lasciata decadere) per modificare l’esercizio della giurisdizione sulla base di proteste di piazza.
Filippo Facci

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