Le preghiere "selvatiche" di Giovanni Lindo Ferretti

Nel libro "Óra" l'ex cantante dei CCCP torna alle origini e riflette sul senso ultimo delle cose

Le preghiere "selvatiche" di Giovanni Lindo Ferretti

«Grande è la confusione/ sopra e sotto il cielo/ osare l'impossibile/ osare perdere», recitano alcune strofe di Manifesto, uno dei brani simbolo dei CCCP. Il testo, e la voce, sono di Giovanni Lindo Ferretti. Una voce che sembra provenire dal fondo della terra, lì dove le cose sono un'ustione per la carne.

Per chi conosca la vicenda artistica di Ferretti dagli esordi, per chi le sue canzoni le ha ascoltate a vent'anni e continua a farlo a quaranta, non sente contraddizione tra ciò che è stato e ciò che è. I CCCP è riduttivo chiamarli un gruppo punk: erano avanguardia, rottura, uno squarcio sulla tela fosforescente degli anni Ottanta; i CSI sono stati il trionfo di una musica che distorceva la classicità popolare, tenendo in piedi secoli di tradizione con un graffio e con un canto da baritono, addirittura abissale, capace di cogliere ogni sfumatura, di vedere tutto quasi da un altrove; i PGR, conclusivi, hanno aperto all'intimismo, hanno trasformato la Storia in «una questione privata»: un atto sociale e spirituale nello stesso tempo.

Vivere su una soglia, vivere dentro una ferita, il coraggio, o il destino, di abitare il dolore fino in fondo, sapendo che il rischio di perdersi è sopratutto una necessità imposta dal disagio di esserci. Prima che canzoni, quelle di Ferretti sono sempre state l'espressione di un modo di stare al mondo, di sentire l'imbarazzo di vivere con una lacerazione che non c'è modo di rimarginare, di chi è costretto a vedere la disperazione con lucidità.

Allora la sintassi si spezza, il fraseggio si disarticola, i versi e le strofe più che seguire il flusso di una storia, di un racconto, sembrano sintagmi, proposizioni ultime e definitive: «Esiste una sconfitta pari al venire corroso/ che non ho scelto io ma dell'epoca in cui vivo./ La morte è insopportabile per chi non riesce a vivere/ la morte è insopportabile per chi non deve vivere» (CCCP, Morire); «se l'obbedienza è dignità, fortezza/ la libertà è una forma di disciplina/ assomiglia all'ingenuità la saggezza/ ma non ora non qui, no non ora non qui/ io, in attesa, a piedi scalzi e ricoperto il capo/ canterò il vespro, la sera» (CCCP, Depressione caspica); «Distruggi le mie felicità/ perché sono da poco agli occhi tuoi/ Qualcuna la riempi la gonfi a dismisura/ e io devo lasciarla/ che stava bene silenziosa e sola/ e gli occhi tuoi mi rubano la luce/ perché tu possa splendere nei miei» (CSI, Intimisto).

Pochi esempi, ma che dicono di uno stare dentro e al contempo fuori dal mondo. Di chi osserva la civiltà degradare ma cerca di aggrapparsi alla sua innocenza, a un luogo tra terra e cielo in cui le cose custodiscono ancora uno spirito sorgivo, nascente. I versi di Ferretti possono in certi casi essere grida, lamentazioni, o eruttare con la potenza di una calamità. Ma anche il grido sorge da una ferita, è un'invocazione, è sempre, ieri come oggi, una preghiera: «Madre di Dio/ e dei suoi figli/ madre dei padri e delle madri/ madre oh madre o madre mia/ l'anima mia si volge a te» (CCCP, Madre).

Per questa ragione pare di ritrovare tutto il suo mondo leggendo Òra. Difendi conserva prega (Aliberti, pagg. 120, euro 12). Un libro propriamente di preghiere, quelle che ha imparato dalla propria famiglia, da sua nonna, da sua madre, nell'antica casa di Cerreto Alpi, sull'Appennino reggiano, e che è tornato ad abitare dopo lungo pellegrinaggio, per ritrovare la pazienza del tempo, finanche la sua attesa, dopo che l'esperienza del palcoscenico era esaurita; dopo che il palcoscenico aveva finito per provocare malessere, rifiuto, desiderio di ritirarsi, raccogliersi, arretrare a una vita sui monti, in cui non esistono spazi vuoti ma solo un vuoto interiore che accoglie la vertigine del vivere.

Del resto Ferretti l'aveva cantata più volte la necessità di difendersi dalle vanità («Non fare di me un idolo mi brucerò/ se divento megafono mi incepperò», diceva in A tratti), e in Òra scrive: «Io che coltivo la memoria per passione, come necessità vitale e ne gioisco, per ciò che mi riguarda, della mia pubblica immagine, pratico ed apprezzo l'oblio. () La considerazione di sé è una strada senza uscita, perseguirla porta alla rovina». Nella dimensione di questo libro, che è una dimensione di vita ritrovata, il canto è divenuto radicale, nel senso che si è radicato alla propria storia, quella di chi proviene da un cristianesimo d'origine pagana e barbarica: «Noi siamo i Barbari, nostri progenitori i Liguri montani rinsanguati Longobardi. Convertiti, peccatori renitenti e penitenti. In un mondo di sangue, crudele, carnale, solo l'Incarnazione poteva commuoverci: la Madre col Bambino». Un cristianesimo selvatico, o per meglio dire primordiale, come quello dei padri del deserto, che rifuggono le tentazioni per tornare a vivere pienamente, «la Civiltà Città m'affascina», «la Civiltà Città s'insinua in me», «la Civiltà Città m'allergica/ Un muro dentro eretto dagli Dei/ Barbaro come gli avi miei», cantava in Barbaro, nel disco da solista Co.Dex.

Tornare lì dove si è nati per ritrovare un grembo che ci accolga; tornare a dove comincia la storia per ristabilire un rapporto genealogico col mondo; tornare ad abitare il tempo, fuori da ogni idea di progresso, per sentire di nuovo il calore della vita; ripristinare con il dolore un rapporto umano, perché «il dolore sbarra le porte all'intrattenimento, costringe alla realtà delle cose».

Tornare a pregare dopo anni in cui si credeva di aver smesso di farlo, per imparare di nuovo a parlare, per cercare uno spiraglio d'infinito nel finito della vita, per accedere a una relazione con la morte quando non si trova una lingua che possa spiegare l'inspiegabile. Pregare è «osare l'impossibile» sapendo che perdere non è la sconfitta della vita, ma la condizione di un'umanità che nasce già ferita.

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