da Roma
Meno di un mesetto e avrebbe superato i 300 giorni, che è cifra misera - diciamolo - anche per quei governi balneari della prima Repubblica che impazzavano quando altre soluzioni alle viste non ce n’erano. Ma diversamente dagli esecutivi gestiti da Leone piuttosto che da Rumor, Romano Prodi aveva alle spalle una vittoria elettorale, sia pur risicata. E mai era accaduto nelle ultime tre legislature - col crescere del bipolarismo e, di fatto, con la scelta del premier - che un esecutivo spirasse dopo solo 9 mesi. Praticamente ancora in culla.
Appena 281 giorni fa, il professore in realtà, prefigurava tutt’altre sorti per il suo governo: «Ci accingiamo a operare, con l’impegno di governare per la durata della legislatura perché solo stabilità e continuità possono portarci a centrare gli obbiettivi che ci poniamo» aveva tenuto a rimarcare proprio in quel Senato dove già si captava l’importanza della squadra dei senatori a vita come bombola d’ossigeno. Ma lui, come già due legislature fa, mostrava il testone di granito.
E a chi gli chiedeva se non rischiasse di subire scossoni, visti i distinguo che spuntavano in maggioranza come funghi, rispondeva ilare: «Sciocchezze! Siamo coesi».
S’è visto. Come si è rivista - guarda te il destino! - l’accoppiata D’Alema-Marini. Era l’ottobre del ’98 quando Prodi, complice il nyet di Bertinotti e i conti fatti male dai suoi uomini dovette amaramente farsi da parte. All’inizio si tuonò contro l’estremismo rifondarolo, poi dalle budella uliviste sgorgò in piena il fiume delle accuse contro il duo diessin-popolare, impegnato a garantirsi - secondo quanto venne detto - la presidenza del Consiglio per il primo, il Quirinale per il secondo.
Mitologia? Può darsi. Ma nessuno può certo negare che il suddetto duo fosse ancora una volta sul proscenio nel mercoledì delle ceneri che al professore è ricostata la poltrona. Dicono ora i prodiani di stretta osservanza che D’Alema forse qualcosa in più la poteva concedere, che Marini magari avrebbe potuto controllare meglio l’amico Andreotti. Chissà. Certo che di complotti la sinistra si nutre a prescindere.
E se ancora non può sparare a palle incatenate contro i presunti disegni di ministro degli Esteri e presidente del Senato, ecco che già comincia a farlo prendendo di mira quello che si dice ordito in coppia da altri soggetti: Usa e Vaticano, magari con un pizzico di Confindustria (Pininfarina non ne era forse il presidente?) in aggiunta. Si fa notare che Scalfaro si è dato malato, che Cossiga ha votato contro, che Andreotti si è astenuto a sorpresa, che pure Follini il quale magari poteva dare una mano, se n’è guardato bene.
Vuoi vedere che non c’entrano i Pacs, sia pur ribattezzati pudicamente Dico? E pensare che a sinistra si era urlato alla «pace» con gli ecclesiastici appena due giorni fa. Corrono le voci, corrono i dissapori. E il professore dicono sia nero, nerissimo. Perché ad onta dell’aspetto curiale, Romano Prodi è uno di quelli che non dimentica. E che se può si vendica.
Così anche se la sua Quaresima potrebbe durar poco - nel caso Napolitano lo reincaricasse - molti dei suoi fedeli son convinti che stavolta reclamerebbe non il bilancino di spartizione, ma una daga con cui fare a fette chi gli si è messo di traverso. E qui non si parla dei Rossi o dei Turigliatto, ma dei destabilizzatori dell’Ulivo, di chi si oppone al Partito democratico, di chi non gli fa strada.
È forse anche per questo che a piazza Santissimi Apostoli, negli uffici prodiani, i sanfedisti dell’Ulivo temono che al fondo del giro di consultazioni l’incarico sparisca. E che dal cilindro di Napolitano - uno di cui il professore si fida poco assai dopo un paio di recenti screzi - esca qualcosa d’altro.
Strano il destino.
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