Un presunto genio che scivola sui propri inediti

«Non muore nessuno» di Sergio Claudio Perroni: la struttura è intrigante ma le gambe che la sorreggono sono troppo deboli

Se è vero che Non muore nessuno di Sergio Claudio Perroni (Bompiani, pagg. 217, euro 15) è un libro giocoso, è poco chiaro cosa vorrebbe dire in questo caso stare al gioco, perché il triangolo formato dall’intenzione dell’autore, dal personaggio principale e dalla corte di detrattori che ne illustrano le nefandezze è elusivo. Nel romanzo si immagina che un grande scrittore, R.T. Fex (il nome pronunciato all’inglese dovrebbe suonare come artifex, alludendo a una prometeicità che il volume si premurerà di deviare verso il ciarlatanesco), tagli la corda, lasciando a due segretarie o assistenti meno che ventenni il compito di registrare le dichiarazioni di coloro che ne hanno condivisa la sorte. Il microfono raccoglie dunque le testimonianze su Fex di una étoile dell’Opera di Roma sfuggita alle sue grinfie dongiovannesche; di un amico letterato che non riesce a dissimulare l’invidia; di un antico compagno di scuola deciso a rimarcarne l’inettitudine, e così via, senza escludere né il barbiere né il cameriere. Alle sbobinature dei nastri si alternano «inediti di R.T. Fex», grazie ai quali il lettore può attingere direttamente alla sua prosa. La struttura del romanzo ha dunque una sua logicità ed è in fondo intrigante. Non si intorbida che quando si materia.
Il protagonista dovrebbe essere un grande scrittore. Eppure mette nove avverbi in una pagina, non disdegna espressioni da ginnasiale come «un vero record» o «la spigliatezza con cui riusciva a instaurare rapporti», e si sente tanto poco a suo agio nel regno dei concetti da scrivere «onirica» tra virgolette. Tutti gli intervistati confermano la banalità dell’uomo, ritratto come un buontempone: «Ti cominciava a fare battute appena si sedeva e te le continuava a fare finché non se ne andava». Il suo umorismo è greve, mortifero. A un testimone basta una frase per ridimensionarne la figura: «Secondo me la cosiddetta “rivelazione” R.T. Fex non è altro che una ridicola montatura, un fuoco di paglia acceso da un editore gaglioffo e alimentato da quattro critici prezzolati». Insomma Fex, l’uomo superiore, è un venditore di fumo e uno scrittore piccolo piccolo. A questo punto, però, cominciano a tornare troppi conti.
Il pasticcio, come prevedibile, lo fanno gli «inediti». Se Perroni non ce li avesse ammanniti, avremmo potuto illuderci che Fex, per quanto poco stimato e ordinario dal punto di vista umano, fosse un genio calunniato e un gran narratore. Oppure che la sua grandezza, quantunque vulnerabile e forse del tutto fasulla, fosse ancora abbastanza impressionante da ingannare gli esperti. Non sono pochi, gli impostori che hanno preso il Nobel. Sventuratamente sapere come Fex scrive mina la formula su cui si regge, o dovrebbe reggersi, il romanzo. Dopo averne lette le pagine, tutto quadra. È normale che Fex sia circondato da gentucola, che sia puerile, che abbia un comportamento comune. Se la grandezza di Fex è estrinseca, un deus ex machina, resta solo la sua intrinseca mediocrità.

Peccato che tolte le dinamiche dello smascheramento, o il contrasto tra gloria letteraria e miseria personale, di Non muore nessuno resti ben poco: una farragine di vaniloqui, di facezie goliardiche, di aneddoti adolescenziali.

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