Inutile cercare la cittadina di Crosby su una mappa dettagliata del Maine. Si tratta di un posto immaginario. Forse l'unica cosa apertamente inventata di un romanzo, «Olive Kitteridge», che tratteggia con rara abilità personaggi, luoghi e atmosfere dell'America di oggi. Un romanzo, questo, che ha lanciato nell'empireo delle lettere la sua autrice, l'americana Elizabeth Strout. Complice il premio Pulitzer che l'ha consacrata definitivamente, inserendo il nome della scrittrice 54enne accanto a quelli di William Faulkner, Ernest Hemingway, Harper Lee e Philip Roth. Grazie al premio, infatti, il libro (pubblicato in Italia da Fazi, come l'altro romanzo della Strout «Amy e Isabell» con il quale l'autrice debuttò all'età di 43 anni) ha decuplicato le vendite negli Stati Uniti. È sicuramente un'opera meritevole. Il personaggio del titolo è sul viale del tramonto di una vita senza clamori ma con pochi rimpianti. Vive in una piccola comunità del Maine dove ancora ci si adegua pazienti al passo delle stagioni.
La grande novità del libro - la sua cifra - è il modo in cui il personaggio viene proposto al lettore. Il volume, infatti, si compone di una serie di racconti che hanno come denominatore comune proprio l'anziana professoressa di matematica, ormai in pensione. In alcuni di questi capitoli Olive è al centro della scena. Spesso è proprio lei che parla e giudica chi le sta accanto. Con monologhi e dialoghi molto efficaci. Altrove è solo una figura di contorno. La Strout, in buona sostanza, ci dimostra come sia possibile arricchire di sfumature un personaggio anche se lo si lascia al bordo della scena. Certo, questo espediente non sarebbe possibile se la protagonista si trovasse in una grande città. La piccola comunità, infatti, ti tiene sempre gli occhi addosso anche quando sembra impegnata in tutt'altre faccende.
La Strout sembra così ridare vigore a un genere, il minimalismo, che aveva goduto di una discreta fortuna negli ormai lontani anni Ottanta (Susan Minot e David Leavitt, solo per fare un paio di nomi, i campioni di quella stagione). E lo fa tenendo sempre a mente le lezioni di un paio di mostri sacri. Stiamo parlando dell'amatissimo (per la Strout e per ogni lettore di buon gusto) Cechov e di Virginia Woolf. L'autrice di «Olive Kitteridge» non è la prima scrittrice americana a fare sua la lezione dell'autrice inglese. Già Michael Cummingham con «Le ore» (Bompiani) aveva dimostrato che esiste ed è vivace una sorta di squadra di epigoni della Woolf ben motivati e rigorosi. La Strout è capace di riscrivere fino a stancarsi una scena, anche un solo paragrafo, se qualche parole stona. Tutto deve essere incastonato come un prezioso gioiello. Forse soltanto un ombra appanna il successo di questo meritevole romanzo. L'autrice non fa certo mistero della sua fede democratica. Al contrario! Nelle interviste è solita dire: «Oggi non puoi più essere una persona rispettabile e al tempo stesso essere repubblicano» (cfr, ad esempio, «Io donna» del «Corriere della Sera» dell'11 luglio scorso). E questa sua passione politica (forse un filino manichea) deborda anche sulla pagina scritta. Nella parte finale di «Olive Kitteridge» c'è, infatti, un veemente attacco contro la presidenza Bush. Un attacco tanto impetuoso quanto gratuito. Almeno se si pensa che per tutto il romanzo non si fanno mai accenni allo stato di salute della società americana. Il romanzo è minimalista. E lo è in modo assoluto. Tutto viene osservato a una spanna di distanza dal naso. Non c'è prospettiva, né contestualizzazione. Non si parla di crisi economica, di disoccupazione, di malasanità, di guerra o di terrorismo. Eppure la bocciatura senza riserve arriva lo stesso. Per il primo grande romanzo dell'era Obama non c'è stato tempo sufficiente per inserire nel romanzo un attacco circostanziato alla vecchia dirigenza repubblicana. Basta una bocciatura programmatica e senza appelli. A questo punto sorge spontaneo un dubbio. Il romanzo è sicuramente meritevole del Pulitzer, anche se chi scrive certo non può sapere quali altri libri la Strout abbia messo in ombra con il suo capolavoro. Però è indubbio che il primo premio Pulitzer dell'era Obama contiene un deciso attacco al presidente Bush.
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