Quando i libri d’arte erano frutto di un’idea

Le gallerie? «Vampirizzano gli artisti». Gli editori d'arte? «Si sono trasformati in stampatori». I giovani artisti? «Imparino a viaggiare, a frequentare musei, e lascino perdere Facebook». Giampaolo Prearo ne ha per tutti nel mondo dell'arte. Del resto, il suo è il privilegiato punto d’osservazione di chi, negli ultimi quarant'anni, ha avuto a che fare con i grandi. Giulio Turcato, Pietro Manzoni, Pierre Restany, i musicisti Demetrio Stratos e Franco Battiato; poi ancora Rotella, Bertini, Christo, solo per citarne alcuni. Le foto esposte nella sede della sua casa editrice, a un passo da corso XXII marzo, testimoniano una vita intensamente vissuta. E sempre all'insegna dell'arte.
Giampaolo Prearo, che non ha il physique du rôle dell'editore dall'aria arcigna, è fuori dagli schemi: si dedica solo all'arte contemporanea ed è poco propenso a compromessi col mercato (su www.prearoeditore.it è indicato l'intero catalogo della casa editrice). «Non sono uno stampatore, che riceve il cd con le immagini della mostra e il testo del catalogo e va in stampa. Io il libro lo concepisco con l'artista e il gallerista», spiega. Quando iniziò, con quella lucida follia necessaria a scelte del genere, sulla piazza italiana c'era solo Scheiwiller che pubblicava libri d'arte sulle avanguardie storiche: Prearo andò oltre, e scelse il contemporaneo. Visionario, anticipatore (il suo catalogo generale della opere di Pietro Manzoni è del '73, ben prima che l'autore della celebre «merda d'artista» diventasse noto ai più) e decisamente non scaramantico: Prearo aprì la casa editrice che porta il suo nome il 1° aprile del '69, il giorno degli scherzi in un periodo permeato dalla contestazione, dall'ideologia, dalla militanza. Il primo catalogo ha una copertina viola (colore notoriamente odiato dagli artisti) e una grafica modernissima: è dedicato a Gianni Bertini ed esce solo nel '71. Perché, ci spiega Prearo, «per fare i libri ci voleva tempo: era un lavoro artigianale». Erano gli anni della vita per strada. A Roma in piazza del Popolo, a Milano a Brera, «un quartiere fatto di case vecchie, alcune con i bagni sul ballatoio: c'erano gli studi d'artista e gli studenti, e ci si ritrovava al bar Jamaica per discutere, accapigliarsi, inventare», racconta. In un'Italia priva di musei contemporanei, l'arte si discuteva (e si faceva) underground, con pochi soldi e molte idee. Come il «Pre-Art», teatro realizzato da Prearo in una cantina in via Larga, vicino alla Statale, dove si esibì un divertito Demetrio Stratos prima che una brutta malattia se lo portasse prematuramente via. E dove, tra performance mensili che abbracciavano tutte le arti, arrivò anche Franco Battiato. «A Milano si sperimentava: ricordo quando, nel '72, sfondammo la porta di una chiesa sconsacrata in piazza Formentini e riprendemmo con la cinepresa Mario Merz (il grande esponente dell'Arte Povera, ndr) mentre installava uno dei suoi igloo: erano le prime forme di video arte», ricorda l’editore. E che dire del «Jumbo party», inaugurazione-evento su uno dei primi jumbo-tram di Milano della mostra di Bertini da Renzo Cortina? Era il '71, e l'idea è ancora di moda. A Prearo spetta il merito di aver creduto in Mimmo Rotella quando ancora era agli inizi («a Parigi viveva in un sottoscala») e in Turcato quando era guardato dall'alto in basso dai critici dei salotti: «Oggi c'è un eccesso di divismo, anche tra i giovani artisti, colpa delle ingerenze della moda che si è buttata sull'arte contemporanea per fare business», commenta ancora.

Oggi che mancano i mecenati, che le gallerie chiedono agli artisti book sempre più simili a quelli delle modelle e che i talenti italiani sono costretti a emigrare per ottenere riconoscimenti (vedi Vanessa Beecroft), Prearo ricorda quando Christo impacchettò la statua di Vittorio Emanuele II in piazza Duomo e Pierre Restany (con la complicità di un giovane Paolo Pillitteri, assessore alla Cultura) chiamò artisti come Arman, César e Rotella alla Rotonda della Besana. Si festeggiava il decennale del «Nouveau Realisme"», ma soprattutto si celebravano l'arte, la creatività, la voglia di fare cultura. Era il 1970. Era Milano. Che nostalgia.

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