Quando internet parlerà cinese

Il governo di Pechino propone all'Onu di rivedere le regole del web. Per dare più poteri di controllo ai singoli Stati. Sarà la prossima battaglia tra democrazie e Paesi autoritari

Quando internet parlerà cinese

La prima riunione si è svolta in settembre, l'ultima poche settimane fa, in febbraio. Nella sede dell'Itu di Ginevra, l'organismo che fa capo all'Onu e che stabilisce gli standard internazionali nel campo delle telecomunicazioni, sono arrivati in entrambi i casi non più di una dozzina di tecnici e dirigenti cinesi: rappresentanti di Huawei, la società cinese all'avanguardia nel settore, dirigenti delle due maggiori società di telefonia del Paese, un pugno di funzionari del governo.

Secondo il resoconto del Financial Times, hanno organizzato una presentazione usando il software più utilizzato per questo tipo di eventi, Powerpoint, e hanno parlato di come sarà Internet tra dieci anni: ologrammi, oggetti controllati a distanza, auto senza conducente. La tesi esposta è che il web come lo conosciamo oggi, e come si è sviluppato fino a qui, in maniera spontanea fino all'anarchia, non basta più. Anche l'internet protocol (in sigla Ip) il linguaggio di base che fa parlare tra loro tutte le reti di telecomunicazioni diffuse nel mondo, consentendo il trasferimento per mille rivoli dei pacchetti digitali, è inadeguato e va sostituito. Al suo posto, hanno detto i cinesi, bisogna introdurre un nuovo protocollo, un «New Ip», più razionale e ordinato, che consenta di gestire meglio il sistema, senza le falle e le incongruenze dell'attuale.

Linguaggio tecnico, materia per iniziati. Almeno all'apparenza. Perché è bastata la presentazione della delegazione asiatica per fare suonare tra i rappresentanti di alcuni Paesi occidentali un campanello d'allarme. Olandesi, britannici, svedesi hanno sottolineato i rischi di un approccio «cinese» al web; la prossima riunione dell'Itu dedicata a questi temi, in programma in India nel mese di novembre, si annuncia un po' più «calda» del solito.

LA SVOLTA

A spiegare pubblicamente meglio di altri la ragione del contendere è stato uno dei consulenti del governo svedese all'Itu, uno dei pionieri di Internet nel mondo, Patrik Fälström: «Oggi l'architettura del web rende molto difficile, quasi impossibile per chiunque fornisca l'accesso alla Rete, controllare o regolare i contenuti o i motivi per cui si accede». Nel progetto cinese si punta a correggere quello che è visto come un difetto. Il documento presentato a Ginevra parla di un sistema «disegnato dall'alto verso il basso», che consenta e promuova «meccanismi per lo scambio di dati tra i governi». Il timore di molti esperti, citati sempre dal Financial Times, è che «con il nuovo protocollo i service provider, i fornitori di accesso alla Rete, di solito statali, vengano ad ottenere il controllo e la vigilanza su ogni terminale collegato e che siano in grado di monitorarlo ed eventualmente limitarlo».

In un recente intervento Fabio Rugge, il diplomatico italiano che è anche responsabile del Centro per la Cybersicurezza dell'Ispi di Milano, ha spiegato natura e caratteristiche degli schieramenti in campo: «L'Occidente vede Internet come una infrastruttura neutrale in cui i contenuti non possono essere limitati, perché centinaia d'anni di battaglie per i diritti umani e la libertà d'espressione oggi si giocano online, i regimi autocratici vedono invece Internet come una minaccia alla loro presa sul potere, e i server per i social media situati al di fuori del loro controllo come un rischio intrinseco per la loro sopravvivenza». Non è un caso che sulla proposta di un nuovo protocollo Internet i cinesi abbiano dovuto fare i conti con l'opposizione occidentale e che abbiano invece incontrato i favori di Paesi come la Russia, l'Arabia e, pare, anche l'Iran.

Non c'è dubbio che siano proprio i governanti di Pechino i precursori e i più coerenti sostenitori del concetto di «sovranità digitale», contrapposta all'utopia originaria di un'Internet senza frontiere.

IL MURO C'È ANCORA

Sin dagli anni Novanta i cinesi hanno creato quello che è conosciuto come Great Firewall (il termine, ironico, è stato, coniato dalla rivista Wired), una grande muraglia digitale che impedisce ai cittadini l'accesso a informazioni scomode, o considerate tali, per il regime. Vietati i siti religiosi o quelli che parlano del Dalai Lama, vietati il New York Times o le informazioni di Bloomberg, vietati social come Facebook o Twitter o la possibilità di accedere a Youtube. Decine di migliaia di tecnici statali vegliano sulla censura, altrettanti sono impiegati per nutrire i social locali di post pro-governativi.

Partiti in ritardo rispetto ai cinesi, ma in grande recupero, sono i russi. Esattamente come i governanti di Pechino stanno cercando di dare vita a una propria Internet separata (vedi anche l'altro articolo in questa pagina). Tra i tanti pregi (ovviamente se li si guarda dal punto di vista di un regime autoritario) un sistema di comunicazione parallelo consente tra l'altro di potere procedere senza problemi al cosiddetto shutting-down, lo «spegnimento» di Internet, in modo da evitare la circolazione di notizie o l'organizzazione di eventuali proteste.

CHIUDO TUTTO

La pratica, per quanto spesso inosservata, è tutt'altro che rara. KeepItOn, organizzazione internazionale che si occupa di libertà digitale, ha censito 25 Paesi in cui sono accaduti episodi di questo tipo nel corso del 2018 e 33 l'anno scorso, segnalando tra l'altro che i periodi di «buio informativo» tendono a farsi più lunghi. Da rilevare che metà delle chiusure si è verificata in India (una democrazia), dove viene decisa di solito a livello locale, per soffocare disordini, mentre una sola vicenda ha fatto scalpore a livello internazionale, quella del Kashmir, dove lo shut-down è servito al premier Modi per ridurre i problemi di ordine pubblico dopo avere privato dell'autonomia lo Stato con la maggiore presenza musulmana. Il Paese che ha effettuato più chiusure a livello nazionale è l'Algeria, mentre il controllo del web con il «blocco» dei social è stato fondamentale per consentire a Nicolàs Maduro di conservare il potere in Venezuela.

«Ma come è possibile per un governo chiudere Internet?», si è chiesto Samuele Dominioni, ricercatore del già citato Ispi, in un paper apparso pochi giorni fa. «Un bottone di spegnimento non esiste. Interrompere ogni tipo di connessione a livello locale o nazionale, richiede qualche livello di controllo governativo sulla struttura di Rete».

Per fermare il traffico di dati e informazioni ci sono varie possibilità: tra le altre chiudere i rubinetti a cui si collegano i navigatori (internet service provider), gli snodi di scambio (internet exchange points, Ixp) o agire sui cosiddetti nomi di dominio (il sistema, in sigla Dns, trasforma gli indirizzi dei siti scritti secondo il protocollo di internet in testi leggibili: per esempio con il suffisso .it per quelli che sono in Italia). Chiudere Internet è possibile, ma non facile, conclude Dominioni.

Lo sanno bene i cinesi che, nonostante le migliaia di censori a libro paga del ministero degli Interni

e della cosiddetta «Amministrazione del cyberspazio», faticano sette camicie per controbattere i «trucchi» di chi cerca di accedere ai siti occidentali. Un nuovo protocollo Internet può rendere più facile il loro compito.

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