Quando l’italiano precipita dentro un imbuto E non ne esce più

Il lettore che pensava di trovare un «libro», ossia un discorso organico sulla lingua, nel recente Il mare in un imbuto di Gian Luigi Beccaria, rimarrà deluso. Si tratta, infatti, di una serie di «pezzi» d’occasione, a carattere più didattico che giornalistico, in cui, ad esempio, si spiega che la lingua non segue la logica o che non è fatta solo di parole, ma anche di frasi idiomatiche: cosa che, a dire il vero, tutti sanno. Il più delle volte si opina ( i «penso», «ricordo», «sospetto» abbondano) e l’opinione, si sa, è mutevole, anche se il timore di incorrere in «scorrettezze politiche» è sempre presente. Così, dopo aver «detto ogni bene dell’inglese e dell’esser misti (sic)», l’autore ammette «che la spinta dell’inglese d’America raggiunge oggi eccessi di aggressività di molto superiore a quanto accadeva in passato con altre lingue straniere». Ma il discorso resta in superficie. Non ci si chiede quali siano le cause dell’anglicizzazione, che non è tanto un male in sé, quanto il sintomo, anche se tra i più vistosi, di una disaffezione alla lingua nazionale che dal ’70 in poi è stata incoraggiata in mille modi. Il degrado a cui assistiamo oggi non è una fatalità, come sembra pensare Beccaria, ma trova origine in una «volontà politica», espressasi persino nel dettato costituzionale, dove la lingua italiana brilla per la sua assenza. Nessuna meraviglia, quindi, che come notava Giovanni Nencioni, in Italia sia mancata «una politica della lingua» e «una coscienza politica della lingua», o, per meglio dire, se ne sia sviluppata una all'incontrario, come anche questo libro dimostra.
L’autore ha gioco facile nel deplorare «l’antilingua» della burocrazia, delle aziende e dei giornali, di cui offre numerosi esempi. Ma anche qui viene eluso il vero problema, che non è solo italiano, e sta nella pervasività di due fattori concomitanti: la tecnologia e quel «politicamente corretto» per il quale nel libro non si spende una parola.
Per contro abbondano gli umori personali. «Non amo i diminutivi», dice ad esempio Beccaria. Ma poi si esalta per i giochi di parole, insulsi, della Littizzetto e cita, come fosse un dernier cri della ricerca, un articolo inteso a dimostrare le origini zingaresche del cognome Calderoli. Più preoccupante mi sembra, per uno storico della lingua, riproporre quello che ormai, specie dopo gli studi di Luca Serianni, è diventato un luogo comune: l’italiano come lingua puramente letteraria, che, improvvisamente, «a metà del XX secolo», «diventa finalmente la lingua di tutti». E come? Per un colpo di bacchetta magica? E senza l’intervento del nuovo stato unitario? Beccaria sorvola. Afferma che «l’italiano è da difendere», ma si guarda dal dire come.
«Alla lingua non si comanda», si dice nel libro e certamente né Beccaria né il sottoscritto possono aspirare a comandarla. Ma quando si immagina una lingua che si fa da sé ed ignora tutto ciò che viene «dall’alto», si dimentica un insegnamento cardine della linguistica italiana: nella lingua usi ed innovazioni non vengono mai «dal basso». Che successo avrebbe avuto una parola come «inciucio», se non fosse stata pronunciata per la prima volta da una personalità politica? E l’anglicizzazione? Viene dal basso? Gli stessi princípî normativi che regolano la lingua non vengono dall’alto, ossia dalla scuola? Beccaria teme che il cosiddetto «italiano medio», diventi «mediocre», e parla, alla Foucault, di un «cumulo di stereotipi che ci parlano, ci consumano lo spazio per riflettere». In realtà, quell’italiano medio non è mai esistito: non è uno standard condiviso, ma un dato ricavato a posteriori sulla base di statistiche per lo più viziate. Quello «mediocre», invece, esiste da tempo, e se oggi deborda si deve anche a quanti nelle scuole e nelle università seguitano a praticarlo.
In ogni caso la semplicità o asciuttezza, invocata sull’esempio di Calvino, può essere un ideale di scrittura (letteraria), ma non certo una ricetta valida per tutti.

Una lingua comune può essere diretta ed efficace solo se validata dalla prassi, come si sapeva sin dall’Ottocento e come oggi ribadisce Paul Ricoeur scrivendo: «Il legame fra l’atto del dire e quello del fare non può essere mai del tutto spezzato». Altrimenti le parole perdono di significato.

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