Quando la «Milano da bene» s’incontrava al Baretto

«Arrivava assieme a una donna di notevole fascino. Si faceva portare un cachepot che riempiva di champagne su cui appoggiava petali di rose. Poi, servendosi di un piccolo mestolo, riempiva i bicchieri dei clienti, invitandoli a brindare alla bellezza della sua compagna. Un altro milanese nostro cliente, pur di rimanere solo con la donna amata, una volta prenotò tutti i tavoli del ristorante, li fece circondare di fiori, e, a lume di candela, cenò con lei servito da un cameriere in frac». Gli episodi curiosi e divertenti sul mondo della “bella vita” di Milano e sull'eccentricità delle persone sarebbero numerosi, ma Ermanno Taschera e Vincenzo Zagaria - titolari del Baretto, il notissimo american bar, nato in via Sant'Andrea, ora ristorante dell'hotel Baglioni - preferiscono mantenere un'apprezzabile discrezione, limitandosi agli aneddoti sopra raccontati.
Nella tradizione del Piccolo Bar, del Charlie Max, della Barca d'oro, del Sans Soucis, dello Stork, dello Storkino, del Nepenta, i locali storici negli anni Sessanta e Settanta, dove l'alta società milanese - aristocrazia, professionisti, industriali, personaggi dello spettacolo, della moda, della politica, della finanza - s'incontrava durante le ore dell'aperitivo, o per pranzare e ballare, Il Baretto è rimasto un punto d'incontro in cui si avverte, sia pure nel clima cambiato dagli anni, lo stile del mondo elegante e raffinato di Milano e parlando con i titolari abbiamo cercato di ricordare come la società abbiente milanese amasse divertirsi, rilassarsi, trascorrere le serate, e costatare le diversità che ci separano da quei tempi.
Oggi, ad esempio, sostengono Ermanno e Vincenzo, l'eccentricità, che nella sua stravaganza presenta spesso degli aspetti gustosi, «è divenuta meno frequente, forse per una sorta di maggior timidezza delle persone, per una mancanza di fantasia e di romanticismo o per i cambiamenti subiti dalla donna». E potremmo anche chiederci - a costo di sembrare troppo cinici - se i vistosi gesti d'amore ricordati, sarebbero oggi apprezzati dall'animo femminile...
«Per una certa categoria di persone - proseguono i nostri interlocutori, che hanno lavorato entrambi al Charlie Max, un locale che fa parte della storia della Milano esclusiva e notturna - l'aperitivo, a base di Martini e di Negroni (oggi si preferisce vino e champagne) era un rito - tutt'altra cosa dall’happy hour di oggi - l'occasione per incontrarsi, alle sei di sera, dopo la giornata di lavoro, fra amici e uomini d'affari. Un diverso modo di vivere. La gente - ma ci riferiamo alla società di elevato tenore economico che abbiamo conosciuto - sembrava meno preoccupata, più spensierata. Amava uscire la sera, e dopo il cinema o il teatro recarsi, per esempio, al Santa Lucia, al Giannino, dalla Bice, al Boec o al Charlie Max per mangiare e ballare accompagnati dall'orchestra di Bruno Quirinetta, fino alle quattro del mattino... ».
Lo stile dei locali era dato soprattutto dal barman. «Divenire barman è una vocazione, che si coltiva fin da ragazzi, come abbiamo fatto noi. Il barman, non prepara solamente un cocktail, tanto meno con gli spettacolari e superflui movimenti di bottiglie e shaker visto nei film americani. Ci sono le scuole che insegnano come preparare i drink. Il barman deve saper capire il cliente che ha di fronte, il suo stato d'animo, i suoi gusti, il suo bisogno di “confessarsi”, di parlare con qualcuno che lo sappia ascoltare, specie se siede da solo e magari si sente un po' triste». Quali famosi barman ricordate? «Tanti: Oscar al Savini, col suo immancabile monocolo, Angelo Zola al Principe e Savoia, Ugo Cristina, una persona di spiccata signorilità, presente nei più bei locali degli anni Sessanta anche in Europa, il Mapelli, il cui bar era sotto del notissimo Donini di piazza San Babila e Mario Fattori, per anni proprietario del Baretto».
«Vorrei ricordare - aggiunge Ermanno - un episodio divertente. Le dieci di una sera invernale. Il locale è pieno. A un certo punto entra un uomo vestito con una specie di tuta azzurra, da manovale, rosso in volto e non certo per il sole, i capelli bianchi, irti e tagliati corti, come un cespuglio. Sembrava Charlie Chaplin. Camminò spedito al banco tra lo sbigottimento dei clienti e chiese un calice di vino rosso. “Mi spiace signore - rispose Mario Fattori imperturbabile - non serviamo vino sciolto”. L’individuo se ne andò a testa bassa, quasi vergognandosi. Aveva capito lo sbaglio fatto, ma in compenso aveva regalato un momento d'ilarità generale a chi aveva assistito alla scena».
Per la clientela, per qualità del servizio e della cucina, al Baretto del Baglioni, sembra di trovarsi in un mondo a parte dove si comprende ancora il significato della parola “classe”, per quanto l'espressione sia di difficile definizione. «Vuole un esempio di cos'è la classe? - ci chiede un cameriere nell'accompagnarci all'uscita -.

Anni fa, lavoravo in un lussuoso ristorante di Milano. Un giorno fui chiamato sulla porta d'ingresso da una persona con scarponi, pantaloni di velluto, un maglione. “Posso entrare lo stesso vestito così?”, mi chiese. Era l'avvocato Gianni Agnelli!».

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