Quant’è buona l’Italia in Australia

Roberta Corradin

Atterrare a Sydney restituisce fascino al nord, punto cardinale dove il sole, quaggiù, trascorre la maggior parte della giornata. A parte le differenze nord-sud, quel che troviamo è un'Italia gastronomica che si è solo spostata un po' più in là sulla cartina. Fino a qualche anno fa, ci dicono i soci del CIRA (Council of Italian Restaurants in Australia), qui dell'Italia si conosceva solo la Toscana. Dicevi Toscana, capivano Italia, dicevi Piemonte, Veneto, Puglia, non capivano. Oggi, il concetto di regionalità è assimilato, i prodotti regionali vanno alla grande, si trova praticamente tutto tranne gli insaccati; c'è un mercato persino per la fregola che in Italia, a essere onesti, fuori dalla Sardegna due su tre non sanno cos'è. Qui la fregola è presenzialista, l'abbiamo trovata anche nel menu del sofisticato Harbour's Kitchen, di ispirazione mediterranea con vista sull'Opera House. Italianicious, una nuova rivista su quel che di delizioso il nostro paese possiede ed esporta, in quattro numeri passa dalla distribuzione nella sola Sydney a quella nazionale. E a dicembre, a Sydney, hanno aperto quattro nuovi ristoranti italiani. Di questo fermento, gli chef del CIRA sono parte attiva e trainante. La lontananza, per vari versi, li ha ispirati.
Li ha aiutati a eliminare un certo snobismo campanilista e ad affidarsi a collaboratori locali e stranieri: tra gli stessi soci, alcuni sono australiani, come James Kidman di Otto. Lucio Galletto, di Lucio's, ha uno chef neozelandese venticinquenne, mai stato in Italia, e lo chef che fa l'eccellente pasta fresca, David, è cinese. La lontananza aiuta a incontrare gli ingredienti esotici, vedi la fauna marina: barramundi, king fish, blue swimmer crab. Aiuta a solidarizzare, ed è così che è nato il Cira: «Ci riunivamo la sera dopo il lavoro; a un certo punto, anche guardando quel che avviene in Italia, ci siamo detti: basta con l'etichetta generica di ristoranti italiani, dobbiamo recuperare le nostre radici, Lucio è ligure, Danny è lucano, Giovanni è sardo, esaltiamo le differenze». Così è nato il CIRA, così li abbiamo conosciuti noi, e così ve li raccontiamo, al motto di vive la difference.
C'è Beppi, il pioniere, qui dal 1956, che racconta quant'era difficile, all'inizio, trovare i nostri ingredienti: andava a prendere le cozze sui piloni di legno, e la gente del posto si straniva, perché qui le cozze si usavano come esca, non si mangiavano. La fortuna di Beppi's fu di venire scelto per le cene della Wine Society, il che fece decollare il locale e con lui la cucina italiana, a quei tempi misconosciuta. C'è Lucio Galletto che, trapiantato qui per amore di una bella australiana, ha aperto Lucio's, il cui décor richiama la galleria d'arte che vi aveva sede. Oltre alla pasta fresca di David, Lucio ci ha fatto assaggiare una bresaola fatta da australiani decisamente interessante e non solo perché lontani.
C'è Armando Percuoco, mattatore, 45 anni di ristorazione alle spalle, di cui 26 in Australia. Armando propone un carpaccio di capesante con l'arancia candita che dà solo il dolce dell'arancia senza il contributo amarognolo, e un timballo di rigatoni che rivaleggia col Vesuvio di rigatoni servito a Sant'Agata da Don Alfonso. Fiori all'occhiello di Buon Ricordo sono anche i due appassionati sommelier, di cui serberemo grata memoria per aver abbinato al timballo un Pinot Noir 2004 neozalendese di Matahiwi Estate, con sentori di amarena.
Questi sono gli apripista, patron vecchio stampo a metà tra l'executive chef e il pierre, e in sala potrebbero far scuola a generazioni di maitres. Poi ci sono i giovani, chef e patron, come Danny Russo, nato qui da genitori lucani, che ama lavorare sulla tradizione innovandola e non perde di vista la contemporaneità in Italia. Il suo dessert all'occhiello nel suo nuovo locale, Lo Studio, aperto da un mese, è la rielaborazione di un dolce tradizionale lucano di melanzane e cioccolato. O come Giovanni Pilu, in Australia per amore da undici anni, di cui uno e mezzo in una baia felice che ti fa sentire in vacanza anche se sei a mezz'ora dal centro città. La cucina di Giovanni è freschissima, valorizza ingredienti locali come il barramundi cotto con la pelle piacevolmente croccante. I suoi culurzones sono un inno al regno sardo-piemontese, oltre alle tradizionali menta e patate mettono in campo salvia e scaglie di tartufo. Il porceddu ha una cottura ineccepibile, unico condimento il grasso del porcellino da latte, che gli dà una rotondità gradevolissima.
C'è anche chi lotta con ortografia e pronuncia e testardamente chiama il proprio locale Il Piavé, con l'accento sulla e perché se no gli australiani non la pronunciano, dice Vanessa Martin, chef 30enne di origine veneta, specializzata in paste fresche ripiene (i suoi ravioli di coniglio soddisfano sia nella pasta che nel ripieno). Tra i giovani spicca anche James Kidman, australiano di Melbourne che ha scelto la cucina italiana «perché volevo sapori semplici». Kidman è di un'umiltà commovente, quasi si scusa di cucinare italiano senza esserlo. E dire che ha un locale frequentato dal bel mondo del cinema, compresa la moglie di Russel Crowe (pare che Russel, e lo diciamo col cuore estremamente infranto, non sia un gourmet). «Non essendo italiano, ho meno costrizioni» dice James, che gioca a svecchiare con la frutta classici intramontabili come l'arista, servita con pesche grigliate al balsamico.


Il CIRA ha nel suo statuto lo scopo educativo: Danny, Giovanni e James insegnano gratis cucina italiana all'istituto alberghiero statale. Perché? «Perché vediamo le cose in prospettiva: formiamo quelli che saranno i nostri souschef. Prima o poi anche noi ci riposeremo e faremo solo gli executive».

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