Quanta poesia in un dribbling di quel folletto di Messi

siste una memoria che non è né individuale né collettiva, e ha qualcosa che somiglia ai sogni, specialmente a quei sogni nei quali ci è dato vivere vite altrui.

Quanta poesia in un dribbling di quel folletto di Messi

E siste una memoria che non è né individuale né collettiva, e ha qualcosa che somiglia ai sogni, specialmente a quei sogni nei quali ci è dato vivere vite altrui. Ci si ritrova con un altro corpo e un'altra età, un'altra casa, un'altra donna con la quale si condividono figli e ricordi mai avuti, un passato immaginario che diventa improvvisamente il nostro, e ci impone uno struggimento difficile da tradurre in parole.

Questa memoria esiste, e due cose lo dimostrano, senza equivoco: l'esistenza della poesia e l'esistenza del calcio. Per quanto apparentemente lontani, poesia e calcio hanno qualcosa che li accomuna in profondità. Non tanto perché il calcio sia più poetico di altri sport - o meglio, lo è, ma nulla impedisce a un grande poeta di segnare la storia della letteratura con il ritratto di un tuffatore, o di un pugile. La grande letteratura si è occupata di tutti gli sport (non so il curling), però solo nel calcio si usa in abbondanza la parola «poeta»: poeta del gol, poeta del dribbling, senza contare le traiettorie magiche del pallone e tutte le altre magie, prodigi, delizie.

Il calcio non è del tutto uno sport di squadra. Basket, volley, football americano, quelli sì richiedono una disciplina di squadra feroce. Il calcio è diverso. Ogni singolo giocatore vive, sul campo, una molteplicità di rapporti. Con i compagni, con il pubblico (che spesso paga il biglietto per vedere soprattutto te), con sé stesso, con il Padre Eterno, con l'allenatore, con la nonna che è venuta a vederti. Il calciatore appartiene a una squadra ma al tempo stesso è solo. Può aver digerito tutti gli schemi del mondo, ma alla fine è solo.

Ricordo il fenomenale gol di Messi al Getafe, quando decise di rifare, lì per lì, lo stesso gol segnato vent'anni prima da Maradona all'Inghilterra. Compagni e avversari non sanno che fare, i compagni si fermano, qualcuno si mette le mani sulla testa, gli avversari corrono ma senza nessuna idea sul da farsi.

Bene, la poesia non è forse lo stesso? Non è forse una parola che spunta da dove non eravamo in grado di attenderla, e ci ferisce, e ferendoci ci racconta - finalmente - quanto è dura e tragica e bella la vita? Non è una finestra aperta su tutto ciò che i nostri programmi non avevano immaginato?

Il calcio è qualcosa di più della somma delle sue componenti. Da interista, mi viene l'esempio della mia squadra. Da trent'anni l'Inter presenta, tranne rare parentesi, sempre gli stessi problemi. Cambiano i giocatori, gli allenatori, le dirigenze, le proprietà e la somma rimane la stessa: una squadra quasi forte, che solo qualche volta diventa forte. Essere interisti fa soffrire, ma è anche bello, ci si sente parte di una storia speciale, e all'ombra di questa storia nascono altre storie, amicizie impreviste, incontri tra sessantenni che scoprono di avere fatto gli stessi sogni da bambini.

Nel calcio c'è sempre di mezzo Dio, comunque lo vogliamo chiamare. Il segno della croce entrando e uscendo dal campo, il dito puntato in alto dopo aver segnato un gol: possibile che nel mondo del calcio ci siano tanti cristiani? Noi diciamo: superstizione, scaramanzia - parole-tappo, che usiamo spesso quando non sappiamo di cosa stiamo parlando.

Perché la faccenda non è semplice. Tutti gli attaccanti del mondo lo sanno: ci sono periodi in cui nemmeno il tiro più perfetto riesce a centrare la porta, e altri in cui anche un pallone svirgolato si trasforma in gol. Ho visto segnare gol con il petto, la coscia, l'anca - tutte le parti del pollo insomma - e ancora con la suola, la nuca, il naso, le chiappe. Tutte cose che poco hanno a che vedere con gli schemi dell'allenatore, le strategie, i moduli.

C'è di mezzo Dio perché il calcio si gioca con la parte più religiosa del corpo umano: i piedi. I piedi non sono millimetrabili, non garantiscono la riuscita automatica di un progetto, insomma: il calcio è un lavoro fatto con i piedi, un lavoro originariamente malfatto, proprio come la poesia, che nulla deve temere come l'essere impeccabile, leccata, perfetta, lei che come nient'altro si nutre di precipizi, di cadute, di infermità, di balbettii, di borborigmi, di sospiri, di fallimenti.

Ma è da qui che sorge il genio: da questa imperfezione originaria. Il genio è il sogno strambo di qualcuno, che si trasforma nel sogno di altri. L'organizzazione della squadra non può prescindere da questa radice solitaria, o accetta il paradosso o uccide il calcio. Perché si sa che il genio non dà soldi, carmina non dant panem, o meglio può dare soldi e celebrità oppure no. E a chi ha vissuto abbastanza a lungo fa piacere, accanto ai nomi di Maradona, Pelé e Messi sistemare quelli di Vito Chimenti, o di Alviero Chiorri, o di Tomas Felipe Carlovich detto El Trinche, che lo stesso Maradona considera il più grande di tutti. Ma poi il bello del calcio è che anche gli zappatori sono parte di questa bellezza, come attori minori che vedono sorgere in sé, imprevista, la stessa luce che illumina il Campione.

«A qualcuno tocca la gloria, a qualcun altro una ex-prostituta e un viaggio in Arizona», chiude Kim Basinger uno dei film più belli dell'ultimo mezzo secolo, L.A.Confidential. C'è una gioia solitaria nel calcio come nella poesia, che prescinde dai premi, dai riconoscimenti, dai titoli. Un gol fuori dal comune è lo stesso in una finale mondiale o in un campo di periferia, a novembre, nella foschia.

E credo che tutti coloro che hanno avuto la fortuna di salire al vertice della fama conservino, da qualche parte, il ricordo di quel campetto dall'erba rada, il cielo grigio, quando nessun sogno di gloria veniva a disturbare la gioia di un gol insperato.

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