La quarantenne sola in un pollaio metafisico

«Periferie di città medio-piccole; borgate agricole; centri storici di paesi sotto i ventimila abitanti; frazioni di piccoli comuni e casolari spersi nelle campagne»: il mondo proiettato nell’internazionale cattolica di Lourdes, momentaneamente negletto dall'idillio africano middle-class di Libera la Karenina che c’è in te, torna minaccioso nel terzo romanzo Adelphi di Rosa Matteucci. Irrisorio fin dal titolo, Cuore di mamma (136 pagg. 9 euro) è un atroce racconto di Natale, lontanissimo dal classico di Dickens e dalle sue mire edificanti. Semmai, Cuore di Mamma è un Christmas Carol capovolto: l'avara Ada, che quando si accorge di essere stata derubata piange «come non aveva pianto nemmeno per la morte del marito», e c'era da aspettarselo, non si redime mai. Sospenderà le sue manovre di resistenza passiva solo grazie all'ictus che la raggiunge durante un'impressionante festa della vigilia, organizzata in un centro per anziani.
A obbligare la recalcitrante vecchia a uscire dalla tana è la figlia Luce, impiegata di banca da poco separatasi dal marito, che l’ha lasciata per un’altra. Dopo l'abbandono la donna ha infittito le visite alla madre, di cui intuisce la crescente inettitudine. Per Luce il matrimonio è stato in primo luogo uno strumento per sottrarsi all’asfissia della famiglia d'origine e in particolare all'ombra della genitrice, un essere ricattatorio e sozzo che dopo la morte del consorte non ha fatto che vegetare tra le muffe della sua abitazione. Ombra che adesso riprende a lambirla, la copre, prova ad inglobarla. L’unica alternativa ad un nauseabondo ritorno al nido materno è prendere contatti con il gruppo locale delle badanti rumene, «sinedrio rurale della sopravvivenza terrestre». Riuscirà a liberarsi della madre e a «rimettersi sul mercato delle quarantenni»? Per scoprirlo bisognerà srotolare l’arazzo corrusco della festa di Natale, dove la Matteucci dispiega tutta la sua invasiva, crocifiggente capacità di osservazione. A farne le spese è la piccolissima, sminuzzata borghesia di provenienza contadina, raffigurata come pervicacemente refrattaria a qualsiasi progetto allusivo di un miraggio, anche solo un miraggio, di bellezza e moralità: «Lo stanzone brulica di cristiani ammassati, risuona di colpi di tosse catarrosa, di voci stridule, di risa volgari, di piedi strascinati, e tutti questi rumori si amalgamano in un unico generale brusio da pollaio metafisico».
Non è fatta di esseri umani questa gentucola feroce e meschina i cui membri hanno nomi che danno sull'animalesco (le ladre Lupenga e Cagnetta), il demoniaco (Otrebron), il grottesco (Topo Gigio). Pian piano l'innominabile teatro plebeo rivela la sua matrice. Una suora dalla testa di teschio recita per tutta la durata del pasto frasi farneticanti: «Nel ’56, tre passaggi nella Santa Casa...». Meglio non lasciarsi ingannare dalla facile liberazione finale, che come in Lourdes è solo il momento in cui la bêtise ha uno scatto, muta di livello e raggiunge uno stato meno agevolmente smascherabile.

Il mondo resta comunque l’opera di un demiurgo maldestro. Se da questa macchina che viaggia verso la distruzione dovesse fuoriuscire un dio, non potrebbe che recitare la preghiera apocalittica sussurrata da Ada nel delirio: «Fa’ che si asciughi tutto prima che cali l’ombra».

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