Quegli incidenti nucleari che terrorizzano l'Europa

Le centrali belghe sono obsolete e a rischio. Così il governo ha deciso di distribuire pillole allo iodio

Quegli incidenti nucleari che terrorizzano l'Europa

Da Doel (Belgio). Era un tranquillo giorno di inizio marzo quando su ordine del governo le farmacie del Belgio sono state inondate da una valanga di pillole bianche. Compresse di iodio da distribuire gratuitamente per limitare gli effetti collaterali di un disastro nucleare.

Le tre regioni federate di Fiandre, Vallonia e Bruxelles sono fortemente dipendenti dall'atomo: oltre il 60% dell'approvvigionamento energetico del Paese è garantito dalle centrali nucleari di Doel, in prossimità del confine con i Paesi Bassi, e Tihange, non lontano dalla frontiera tedesca. Impianti attivi dagli anni Settanta e ormai obsoleti ma vitali per l'indipendenza energetica belga. Strutture da anni al centro del dibattito pubblico per le condizioni di sicurezza da più parti definite assai precarie. L'ultimo episodio risale allo scorso 23 aprile, quando nella centrale di Doel si è registrata una perdita di liquido radioattivo in corrispondenza della saldatura di un condotto, in uno dei sistemi di raffreddamento del reattore 1. Il reattore è stato spento e l'Agenzia federale per il nucleare (Fanc, ndr) ha assicurato che i 6mila litri fuoriusciti sono stati raccolti in un serbatoio d'emergenza. Tuttavia prima di poter ricostruire con certezza le cause all'origine di questa perdita potrebbero passare dei mesi, anche a causa del rischio per gli operai esposti alle radiazioni.

La Fanc ha spiegato che non vi sono rischi per la popolazione né per l'ambiente ma le reazioni della politica e della società civile non sembrano improntate alla stessa serenità. Nei Paesi Bassi una rete di amministratori locali delle zone più vicine al confine belga chiede lo spegnimento delle centrali nucleari e in Germania il governo del Nord Reno-Westfalia ha accusato i vicini fiamminghi di ritardi e reticenze nella comunicazione dell'incidente, lamentando di aver ricevuto la notizia dai giornali. Rimostranze simili a quelle presentate a Bruxelles da alcuni deputati della commissione per il nucleare in Parlamento, dove una delegazione socialista ha chiesto lo spegnimento dei reattori a rischio.

Le proteste degli ultimi giorni, però, trovano un precedente nelle polemiche divampate nello scorso autunno, quando le autorità tedesche e olandesi diedero avvio a programmi sanitari straordinari per preparare la popolazione alle conseguenze di un eventuale incidente nucleare nel vicino Belgio. Misure successive alla diffusione di ricerche scientifiche che mettevano in guardia dalla comparsa di numerose crepe sulle pareti dei recipienti in pressione dei reattori di Doel 3 e di Tihange 2.

Secondo il professor Walter Bogaerts, docente di ingegneria dei materiali e ingegneria nucleare all'università di Lovanio, si tratta di «hydrogen flakes»: fratture nelle pareti in acciaio dovute a processi chimici di trasformazione dell'idrogeno. Nonostante i risultati delle ispezioni periodiche nei reattori abbiano evidenziato un aumento costante delle crepe in numero e dimensione sin dal 2012, la Fanc ha inizialmente sostenuto che non vi fossero evoluzioni negli ultimi quattro anni. Un'affermazione poi smentita dopo l'intervento di alcuni gruppi ambientalisti che denunciavano quella che appare una situazione preoccupante.

Bogaerts sostiene che il peggiorare della situazione sia spiegabile «solo con una crescita delle crepe durante le operazioni» e per questo ha chiesto pubblicamente l'immediato spegnimento dei reattori. «Normalmente le hydrogen flakes misurano mezzo centimetro per un centimetro spiega il professore Ma nel 2012 ne furono trovate alcune grandi anche quattro centimetri. E nuove ispezioni nel 2014 rilevarono una crescita di queste fratture, sia in numero che in dimensione, fino a nove centimetri». «Il rischio di un aggravarsi della situazione - prosegue - sarebbe quello di una perdita di liquido refrigerante dal nucleo del reattore e questo potrebbe provocare conseguenze simili a quelle viste a Fukushima».

Queste tesi, peraltro, si basano in parte sulle pubblicazioni di altri due docenti dell'ateneo cattolico, René Boonen e Jan Peirs, autori di uno studio pubblicato a maggio del 2017 che sottolinea i rischi per la sicurezza a Doel e a Tihange. Contattati dal nostro giornale, i due accademici si sono rifiutati di commentare i risultati del proprio studio, adducendo la necessità «generare un clima di buona volontà». Significativamente, il loro rifiuto seguiva di pochi giorni un intervento pubblico del rettore dell'università di Lovanio in cui si chiedeva ai docenti di interrompere le «grandi dichiarazioni ai giornali». Un principio di prudenza che, pur comprensibile, non si concilia con l'esigenza di informare un'opinione pubblica sempre più preoccupata. Il silenzio di Boonen e Peirs, d'altro canto, è ancora più inquietante alla luce dell'improvviso spegnimento del reattore 3 di Doel avvenuto a gennaio, quando nella capsula in cemento armato dell'impianto furono trovate alcune crepe attribuite allo sprigionarsi del vapore all'interno della struttura.

Nonostante l'incidente non abbia coinvolto la parte nucleare dell'impianto, la preoccupazione delle autorità civili e di parte della comunità scientifica resta forte: la centrale di Doel sorge nel bel mezzo dell'enorme porto di Anversa, a pochi chilometri da grandi industrie petrolchimiche e al centro di un'area abitata in cui vivono e lavorano milioni di persone. Cittadini che spesso ricevono informazioni confuse e contraddittorie e che in misura sempre crescente sentono di non potersi fidare di quelle diffuse da autorità imprecise e reticenti.

Le manifestazioni per chiedere il passaggio ad altre forme di energia, come già ha fatto la vicina Germania, si susseguono di mese in

mese. La data del 2025, quando è previsto lo spegnimento definitivo dei reattori, sembra ormai prossima e allo stesso tempo molto lontana. Nel frattempo, la popolazione può fare affidamento solo sulle compresse di iodio.

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