Quegli italiani atipici che rifiutarono di mettersi l'etichetta

Giampiero Mughini ripercorre la prima metà del XX secolo. Che spiega la seconda e oltre...

Quegli italiani atipici che rifiutarono di mettersi l'etichetta

Il cuore del nuovo libro di Giampiero Mughini, "I rompicazzi del Novecento" (Marsilio, pagg. 266, euro 19) è nelle pagine che, attraverso i percorsi individuali di Giovanni Ansaldo, Giaime Pintor e Giuseppe Prezzolini, raccontano cosa sia stata la prima metà del nostro Novecento. Del primo diremo per il momento che fu il più brillante giornalista antifascista sino al delitto Matteotti, arrestato e spedito al confino poco dopo, ma un decennio più tardi direttore di Il Telegrafo di proprietà della famiglia Ciano, nonché uomo di fiducia di Galeazzo Ciano. Del secondo, che fu tra i più brillanti giovani intellettuali che uscivano dai Guf e dai Littoriali del Regime, e morto nel novembre del 1943 a soli ventiquattro anni, dilaniato da una mina mentre cercava di raggiungere le linee alleate nel Sud Italia. Quanto al terzo, fu il più straordinario agitatore culturale di quell'inizio secolo, fondatore e direttore di Leonardo e della Voce, scopritore di Mussolini e però, durante il fascismo, esule volontario prima in Francia e poi negli Stati Uniti.

Utilizzando queste tre biografie esemplari, incrociandole e mettendole a contatto e a confronto con figure coeve quanto presenti nei loro percorsi umani e intellettuali, Gobetti e Salvemini, per esempio, ma anche Amendola e Gramsci, Croce e Bottai, Mughini ricostruisce da par suo una parte della storia d'Italia nota agli storici e a chi si occupa di storia delle idee, ma sconosciuta ai più e messa in disparte e/o colpevolmente travisata oppure riscritta dalle élites ideologico-politiche che dal Secondo dopoguerra si sono succedute, con i risultati che oggi abbiamo sotto gli occhi, ovvero un Paese senza: senza memoria, senza coscienza nazionale e però con una gigantesca coda di paglia atta a coprire il buco nero del fascismo. Ci torneremo su, ma restiamo ancora per un po' sul libro.

I rompicazzi del Novecento

Come scrive Mughini, riprendendo una citazione malapartiana, La Voce fu «la serra calda del fascismo e dell'antifascismo» e basta vedere i nomi dei suoi collaboratori per rendersene conto: alcuni li abbiamo già citati, ma bisogna aggiungere Augusto Monti e Jahier, Soffici e Papini, Arangio Ruiz e Lombardo Radice... Soprattutto, fu l'espressione di un sentimento contrario alla cosiddetta italietta giolittiana e liberale: è di Salvemini del resto la definizione di Giovanni Giolitti come «ministro della malavita», e l'interventismo che porta l'Italia nella Grande guerra travolgendo il neutralismo, appunto, giolittiano, è trasversale e ha nel nazionalista Amendola come nel fino ad allora socialista Mussolini due dei suoi punti di forza. Anche Prezzolini è interventista, nonché nazionalista, anche se il suo nazionalismo ha una forte impronta morale, di rieducazione civile e etica di un popolo. Ciò che però gli sfugge, ed è curioso per un cultore di Machiavelli e del realismo hegeliano quale egli era, è che spesso le nazioni si formano dal di fuori, non dal di dentro: l'Inghilterra elisabettiana che dà il via alla sua traiettoria imperiale non era meno ignorante, rozza e sbracata di quell'Italia arrivata un paio di secoli dopo all'indipendenza, e i suoi Drake, Raleigh, Morgan prima di diventare baronetti erano stati pirati...

La stessa cecità in fondo Prezzolini la mostra nel suo delineare una «società degli apoti» proprio all'indomani del fascismo al potere e di cui però prevede, con estrema lucidità, che sarebbe durato almeno vent'anni. L'apotismo gli varrà la sensata obiezione dell'amico-avversario Piero Gobetti, che lo paragonerà a una «compagnia dei suicidi», intellettualmente parlando. Non è un caso se entrambi si vedranno costretti ad andarsene dall'Italia. E però anche Gobetti era stato uno spregiatore del giolittismo e la sua «rivoluzione liberale» era più influenzata dai soviet della Rivoluzione d'ottobre e dalla classe operaia che dal sistema parlamentare.

Il fascismo, in realtà, è un'avventura, un qualcosa di nuovo e di radicalmente diverso rispetto al passato ottocentesco e risorgimentale, e avventurieri, nel bene come nel male, sono chi ne fa parte. Questa riflessione la fa Ansaldo che fra Prezzolini e Gobetti è stato con quest'ultimo nella sua battaglia antifascista, ma lo è stato cavalcando «una apologia del liberalismo di origine protestante e di modello inglese» che era «tutta roba appiccicata. Ero liberale, democratico e filosocialista, così come ero turco». Come nota Mughini, è raro trovare spiegata meglio «una radicale revisione ideale di tutto un periodo cruciale della propria storia politica, ma soprattutto intellettuale». Ma questa revisione è anche legata al fatto che nel decennio che segue il suo passaggio da «antifascista riluttante» a giornalista di fiducia del genero del Duce, Ansaldo ha fatto a tempo a frequentare i «pedagoghi» e gli «educatori» dell'antifascismo, nonché la loro pubblicistica di fuoriusciti, che sia di impronta comunista, azionista, socialista o squisitamente liberale e si è reso conto che non c'è alcun contatto con la realtà del Paese, con quello che succede, con il tipo di società che si sta costruendo. Hanno tutti la testa rivolta a un passato idealizzato o a un futuro inverificabile. «Si voglia o non si voglia, Mussolini è stato un grande avventuriero. La nostra superiorità di fascisti è quella di aver osservato questa avventura da vicino. La grande inferiorità degli antifascisti è quella di averne sentito soltanto parlare da lontano». Proprio perché l'ha osservata da vicino, Ansaldo sa benissimo che è esistito un consenso e un'adesione, una complicità, un calcolo e un tornaconto. Dire che la guerra l'ha combattuta e persa il fascismo, aggiunge, e che invece l'Italia e gli italiani l'hanno vinta è un falso storico, nonché una forma di gesuitismo con cui salvarsi l'anima, ma dannarsi quanto al carattere nazionale.

Giaime Pintor, infine. È per età un puro prodotto del fascismo. Ha uno zio generale, a 18 anni va con lui in Libia a conoscere Italo Balbo, nel gennaio del '43 fa parte di una missione militare italiana a Vichy, è stato l'anno prima al convegno degli scrittori a Weimar voluto da Goebbels, sarebbe voluto andare come ufficiale di collegamento dell'esercito tedesco sul fronte orientale, e intanto legge, scrive, traduce, ha le sue storie sentimentali. Non c'è nulla nella sua breve esistenza di quel manicheismo, di quel o bianco o nero così caro a una pubblicistica antifascista a posteriori, ovvero di quell'atteggiamento intellettuale che, come scrive con la sua consueta verve Mughini, si fa un vanto «dello spaccare con un'ascia la mela in due parti distinte e separate. Da un lato la fetta che costituisce il Bene, dall'altra quella che costituisce il Male».

Dal libro di Mughini emerge insomma che non sono le etichette ideologiche quelle che ci dovrebbero interessare, «ma le persone per come sono e fanno» e che il ventennio fascista è strettamente intrecciato con le scelte, i tormenti, gli eroismi e i tradimenti, le contraddizioni di un Paese che prima ci crede e si illude, poi fa finta di crederci, poi si oppone e cerca di tirarsene fuori oppure si intestardisce a restarvi dentro, per tanti motivi, nobili e ignobili. Se non se ne prende atto, il risultato è quella avvilente gazzarra di qualche settimana fa intorno alla maglietta con il motto della X Mas indossata da un comico nelle prove di uno show televisivo, e dove la vergogna non sta in chi l'ha indossata, ma nell'élite intellettuale e politica che, avendo per un cinquantennio e passa negato ogni legittimità a una guerra perché quella era la guerra del fascismo e non dell'Italia, ha scientemente nascosto e insieme negato che la X Mas fosse stata fino al 25 luglio in cui il fascismo cadde la punta di diamante della nostra Marina militare. Essendo eroi «fascisti» non erano eroi italiani. Tutto qui.

Ps Mesi fa, in tempi non sospetti dunque, è uscito in Italia, pubblicato da Rizzoli, L'italiano di Arturo Pérez-Reverte. Nella copertina dell'edizione spagnola c'è l'immagine di uno di quegli uomini rana della Seconda guerra mondiale, con un sottomarino sullo sfondo, i marò della X Mas, appunto, protagonisti di missioni belliche pericolose e spesso mortali che gli valsero la stima e l'ammirazione degli avversari. L'edizione italiana mette invece in copertina un giovane uomo seduto e ritratto di profilo e, al suo fianco, ma in primo piano e di spalle, una ragazza mora che guarda il mare sullo sfondo. Il sottotitolo di quella originale diceva Una historia de amor, mar y guerra.

Da noi il sottotitolo è scomparso e di primo acchito, guardando l'immagine, uno pensa ai poveri ma belli dei film di Dino Risi in gita a Ostia. Ci siamo capiti e, come avrebbe detto un mio amico napoletano, «ca ne parlamme a fa'»...

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