«Metodo Ikea», come dice Maria Latella? Anche. È difficile separare la storia di Forza Italia da quella del suo leader. Difficile dire quando il partito azzurro abbia iniziato a essere qualcosa di più di un’idea dai contorni imprecisati nella testa del Cavaliere, e come. Forse nei giorni delle prime riunioni semiclandestine ad Arcore, quelle in cui iniziava a tessersi la tela, intorno al nucleo primigenio degli uomini di Publitalia (pare che fossero 27). Forse in quella storica riunione con i big delle televisioni Mediaset, in cui Maurizio Costanzo disse: «Le sconsiglio di fare un partito, la faranno a pezzi». Anche Gianni Letta - secondo la leggenda - vaticinava «la distruzione» dell’impero mediatico, e Fedele Confalonieri definì, lo ha raccontato lui stesso «una follia», l’idea di fondare un nuovo partito. L’unico tra i presenti a crederci da subito pare che fu Giuliano Ferrara: «Vada avanti, vada avanti!». Incredibile, ripensandoci oggi, solo il pensiero che Berlusconi avesse chiesto di fondare e guidare quel partito a Mariotto Segni.
Ma tutto questo non era ancora una struttura, un’organizzazione, un embrione di apparato. Forse Forza Italia ha iniziato a nascere davvero, come scrive la Latella, quando Berlusconi ha iniziato a disegnare le regole di un «metodo Ikea» da applicare alla politica. La direttrice di A, nel suo libro sulle origini di Forza Italia, (Come si conquista un paese, Rizzoli), azzarda un paragone spiazzante fra la multinazionale del mobile e la formazione azzurra, in nome di questo principio: «Tutti ridevano, per i prontuari e le regolette del Cavaliere, così dettagliate, così perentorie, apparentemente buffe. Invece, proprio come per i mobili Ikea, devi seguire rigorosamente le istruzioni: se lo fai tutto diventa facile, ma non sbagliare nemmeno una vitarella. Altrimenti il mobile non si regge in piedi». Sì, forse Forza Italia ha iniziato a prendere corpo nello spazio immateriale di quei comandamenti: l’indimenticabile valigetta con «il kit del candidato» azzurro, il simbolo con i suoi fondali a nuvolette, i provini dei potenziali candidati (quanto valgono, oggi quelle registrazioni?), il cd con quel terrificante e orecchiabilissimo jingle: «E Forza Italiaaa... » che si piantava nelle teste come un trapano e i padri di sinistra sentivano ripetere, con orrore dai loro bambini. La sinistra sottovalutò «il partito di plastica», dal primo all’ultimo giorno di campagna elettorale. E considerò un un gesto ridicolo la cassetta spedita alle tv: «L’Italia è il paese che io amo... », al punto da discutere per mesi solo di un dettaglio, se davvero il Cavaliere avesse usato o no la calza davanti alla telecamera. Oggi, interrogato in proposito, l’uomo che era dietro la telecamera, e che ora è il gran cerimoniere del Cavaliere - Roberto Gasparotti - scuote il capo: «Non c’era nessuna calza». Eppure, rileggendo cosa si scriveva del Cavaliere, tutto sembra avvolto da immagini misteriche. Enrico Deaglio pubblicò un diario del 1994 (Besame Mucho, Feltrinelli) in cui un intero capitolo era occupato dalla storia di quella che lui definiva «la spilla incanta-burini». Ovvero di un distintivo con il simbolo del partito, che avrebbe incantato gli elettori con il suo luccicchio, nel giorno del duello con Achille Occhetto a Braccio di ferro.
Possibile? Poteva essere questo il livello di analisi? Molto più giustificato, invece, fu il successo mediatico del sardo Gianni Pilo, sondaggista e primo (non sostituito) guru. Anche su Pilo circolavano leggende: clone, profeta e anche un po’ stregone, ma sicuramente personaggio. Dopo la vittoria elettorale uscì un instant book a sei mani di tre gornalisti di sinistra, Curzio Maltese, Massimo Gramellini, Pino Corrias, che parlava di un Colpo grosso. Nell’estate della sconfitta andarono esaurite cataste di copie, ma almeno era la prima vera narrazione. Con Colpo grosso nacque un genere letterario di successo, il pamphlet antiberlusconiano, di grandissimo successo in libreria. La sinistra perdeva, ma voleva leggere, scoprire, indagare i retroscena.
Si è giustamente ricordato, in questi giorni, che di quella prima struttura, di quei primi «cavalieri» intorno al Cavaliere pochi sono ancora in Forza Italia. Alcuni ritornati ai loro lavori, altri addirittura fuoriusciti dalla politica. È un sociologo zen oggi Alessandro Meluzzi, l’uomo che portò Forza Italia alla vittoria nel collegio impensabile del Lingotto. Non c’è più Raffaele Della Valle, che fu il primo capogruppo. E nemmeno Angelo Codignoni - il primo organizzatore - ritornato a occuparsi di aziende in Francia. Forse era davvero il metodo Ikea, a contare più dei singoli tasselli. Quella campagna fu combattuta soprattutto sui media: l’appello al voto di Mike Bongiorno (oggi sponsor «clandestino» di Sky!), la battuta di Ambra «Occhetto è il diavoletto!», i pronunciamenti di Ambra e di Iva Zanicchi. Ancora dal libro della Latella è memorabile la passeggiata che la giornalista fa nei corridoi della neonata sede di via dell’Umiltà, ancora odorante di pittura lavabile «rosa». Il generale Caligaris, suo accompagnatore, la lasciò di sasso dicendo, in un ascensore foderato di specchi: «Dopo la vittoria, qui mi concederò una scena da nove settimane e mezzo!». Eppure era questo che faceva la differenza, una certezza di vittoria quasi inspiegabile che i numeri di Pilo e le granitiche strategie del Cavaliere infusero a tutto il partito.
La vittoria fu rapida e imprevedibile, la prima sconfitta fu amarissima. Nel 1994 Bossi diceva che a Berluscàz bisognava «segare il balconcino!». Nasceva un governo Dini. Quel «partito di plastica» che aveva vinto per errore sarebbe ritornato nel nulla, con i suoi kit e i suoi professori. Invece iniziava un’incredibile «traversata del deserto». La Nave azzurra, altra invenzione dalle sembianze kitsch, iniziò a battere i porti d’Italia, attirandosi ironie, e persino un corredo di aneddoti scaramantici. A bordo, un giorno, Paolo Bonaiuti si fratturò un braccio. Ma in quel 1999 Forza Italia tornava a vincere, malgrado il divieto di spot e il terreno sfavorevole del voto amministrativo. Il partito di plastica non c’era più: adesso c’era un partito, gestito da alcune vecchie volpi ex democristiane come Claudio Scajola. E poi dall’altro nucleo duro del forzismo: i post socialisti come Fabrizio Cicchitto, Renato Brunetta. In ogni caso era un mondo che si popolava, un gruppo dirigente che si strutturava su nuovi rapporti dialettici. Infine arrivò Sandro Bondi: con le sue poesie, i suoi mi consenta, la sua storia di ex sindaco comunista di Fivizzano, folgorato ad Arcore. Adesso il metodo Ikea aveva lasciato il campo a qualcosa di più strutturato. I primo congressi azzurri furono, fin dal primo, qualcosa di molto diverso da tutto quello che si conosceva: fecero scandalo (giustamente) i credo recitati dai «giovani azzurri» (il simultaneo trapianto dei capelli!) quell’idea della spallata da dare al governo Prodi, a qualunque costo. Alle elezioni del 2006 Berlusconi sembrava «cotto». Casini e Fini già pensavano al futuro, i sondaggi parlavano di decine di punti di svantaggio. Si inventò una campagna a tappeto, in tutti i programmi. Nelle urne la sconfitta certa divenne una vittoria al Senato e una sconfitta per 24mila voti alla Camera. Da quel momento in poi, Forza Italia cambiava passo di nuovo: manifestazioni di piazza (a San Giovanni!), eserciti di scrutatori nei seggi, organizzazione capillare. Partito sempre cesaristico.
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