Altri due nostri militari sono caduti in Afghanistan, uccisi da una trappola esplosiva. Credo che il dolore degli italiani per questa sciagura sia identico a quello provato per le nostre prime vittime in missioni all’estero, identico a quello provato appena il 17 maggio scorso per due artificieri ammazzati nello stesso modo.
Uguale dolore, ho detto. Eppure non sembra, a giudicare dallo spazio, in pagine e in minuti, che i media di ieri hanno dedicato ai due alpini saltati come birilli in una terra lontana. Molti quotidiani, ma non tutti, hanno fatto un richiamo in prima; nessuno ha dedicato all’evento le molte pagine altre volte utilizzate in occasioni simili. Anche i telegiornali sono stati più asciutti, nei sommari e nei servizi. La stessa “gente” ne parlava poco, nelle chiacchiere d’ufficio, da spiaggia, intorno al tavolo della cena. E se - per l’italiano medio - potrebbe valere la giustificazione che è estate, che c’è da pensare alle vacanze e alle allegrie, il discorso non vale per i media, che d’estate hanno problemi a riempire pagine e spazi. Dobbiamo allora pensare a una nuova indifferenza, o addirittura al cinismo, degli italiani? Che ci interessi meno la morte di due connazionali caduti in “missione di pace”, mentre indossavano una divisa che ci rappresenta tutti? Oppure che ci siamo abituati alla morte tragica dei nostri militari come ci si abitua alle risse televisive e agli scandali gossippari? Non credo a nessuna di queste ipotesi. La verità, probabilmente, è più semplice, meno cruda e più realistica: abbiamo ormai dovuto capire che le missioni del nostro esercito sono definite “di pace”, ma comportano l’esistenza di una guerra, nella quale siamo coinvolti con uomini e mezzi armati per combatterla. E abbiamo capito che in guerra si muore.
Ai tempi delle prime vittime avemmo un enorme trauma collettivo. L’Italia era in pace da decenni. Specialmente dopo il crollo del comunismo sembrava che l’esercito servisse più alle belle parate che alla difesa dei patrii confini. La morte di un soldato avveniva per incidenti del mestiere, o – al peggio – per un suicidio da depressione che probabilmente sarebbe avvenuto comunque, anche senza divisa. Poi, le strategie e le necessità internazionali sono cambiate, l’Onu ha mostrato tutti i suoi limiti militari, gli Stati Uniti si sono stancati di fare il gendarme del mondo, hanno chiesto aiuto e partecipazione agli alleati, e è stato giusto concederglieli. La pace, sia pure armata, è interesse e compito di tutti.
Attentato dopo attentato, combattimento dopo combattimento, anche noi italiani – come da oltre un secolo gli americani – abbiamo dovuto comprendere che mandare truppe in territori ostili, esplosivi, non è un gioco, che c’è un prezzo da pagare, sia pure con la vita di chi ha scelto di fare il soldato di mestiere. Nella minore attenzione collettiva dedicata ai due poveri alpini uccisi non c’è dunque un aumento di cinismo, bensì un aumento di consapevolezza. E l’aumento della consapevolezza comporta un calo dell’emotività, persino di fronte alla scomparsa di giovani che tornano a casa in una bara avvolta nel tricolore, perfino di fronte al dolore delle famiglie.
Ne è prova che anche l’opposizione più contraria agli interventi militari alza meno la voce dopo lutti come quelli dell’altro ieri. Ma la vera controprova che non si tratta – da parte del popolo italiano – di cinismo o di perdita di interesse alla collettività, è che lo sdegno aumenta, invece, per altre morti. Le tragiche, frequentissime, insopportabili morti sul lavoro. Non il lavoro di chi ha scelto, per guadagnarsi il pane, una divisa e le armi, ma quello di chi entra in un cantiere e in una fabbrica e ci rimette assurdamente la vita. In quei casi rimangono invariati, anzi aumentano, l’emozione, lo scandalo, il dolore. Perché se è lecito aspettarsi una morte quando si è scelto per mestiere di disinnescare bombe, non può e non deve accadere che qualcuno perda la vita mentre pulisce una cisterna.
Tutte le morti sono uguali, è vero, e devono addolorarci nello stesso modo. Ma è una caratteristica dell’animo umano, prima ancora che del giornalismo, sgomentarsi più per una disgrazia imprevista che per una fin troppo tragicamente prevedibile.
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