Quel duello omerico perso col mito dell’aquila

Montanari e animali sono i protagonisti delle storie, dure e intense, di Vincenzo Pardini

Il «bilancio», il mostruoso rapace che apre la raccolta di racconti Il falco d’oro (188 pagg., 14 euro) con cui la Pequod inaugura la ristampa delle opere di Vincenzo Pardini, è alto come un ragazzino di tredici o quattordici anni. Non è dunque una creatura chimerica, un gigante di carta: è un po’ più grande di un’aquila, così come gli dèi greci erano un po’ più grandi degli uomini, ma non troppo, di modo che se qualcuno avesse incrociato un dio lungo un sentiero avrebbe potuto prenderlo per un mortale corpulento. L'incremento moderato delle dimensioni allude ad una disponibilità del mito: i rapaci, le volpi, i lupi di Pardini non sono fantasie meridiane, ma residui di un’epoca tramontata che tuttavia possono ancora essere inseguiti, ammirati, maledetti. Persino compatiti, se involontariamente si trovino a sfiorare la domesticità.
La visione del mondo dello scrittore, che raggiunse la notorietà proprio con queste storie dure e intense, pubblicate una prima volta nel 1983 dalla Mondadori, appare ben delineata nell’arco dei sette giorni durante i quali il montanaro Olao, dopo averlo fortunosamente ferito, insegue il rapace sulle vette dell’Appennino tosco-emiliano, «sospendendo le ostilità la notte come facevano gli antichi guerrieri». L'avvoltoio e la sua fuga, solo apparentemente disperata, stava o sta per una cultura ferita a morte, ma non spossata: non a caso l'avvoltoio ha ancora la forza di uccidere il suo inseguitore. Una settimana di caccia che esemplifica la lotta verticale tra l’uomo e la natura che Pardini privilegia sulla sfida orizzontale tra gli esseri umani, che di solito resta sullo sfondo, riproponendo l’antico contrasto tra villaggio e foresta che le nostre città, se fossero degne di questo nome, avrebbero già riassorbito, invece di proiettarlo su selvaggi urbani di comodo.
Dietro la sfida con il selvatico, la solitudine dello stalker verso la quale tutto, nelle pagine di Pardini, cospira. Il fatto che gli animali coprano sia il ruolo del nemico, sia quello dell’amico; la reticenza dei personaggi (come l'ultima sentenza del vecchio che rimarrà, al pari del vero nome di Roma, segreta, perché nessuno può ripeterla); ed anche, a non lucendo, la veemenza delle vibrazioni provenienti dalle immagini, ora abbaglianti ora livide, composte da un mosaico di capoversi brevissimi, perché il loro risuonare di ottone appare alle nostre orecchie come immerso in una sorta di mutismo. Forse, semplicemente abbiamo perso l’abitudine ad una musica così spessa e materica. Ma al senso di lontananza e di isolamento contribuiscono gli arcaismi stilistici («Ventre contratto da un gran fiato si calma»), l'amarezza di certi passi (gli occhi della mula, buchi neri «come quelli della tristezza esacerbata»), e in generale la lingua scarnificata nella quale brillano, incastonate, parole gravi e dimenticate.


A distanza di venticinque anni, l’emblema del volume ci è sembrato quello, straziante, dei piccoli di volpe catturati cui «penetrò la catena nel collo, forse perché la notte tentavano di fuggire»; o il gesto riassuntivo dell’ebreo reduce dal campo di concentramento, che invece di seppellire la moglie morta di malattia sale con due muli in montagna e ne lascia scivolare il corpo in una forra che si inabissa nel ventre della montagna.

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