Quel marchio d’origine che deve restare

Quel marchio d’origine che deve restare

Stefano Zecchi

Provate a contare quante automobili Fiat ci sono lungo il marciapiede della strada in cui abitate. Poi provate a chiedere a un giovane quale tipo di automobile desidera in regalo - se il genitore è disposto a tanta generosità - oppure da acquistare con i propri risparmi. In entrambi i casi vi accorgerete che la Fiat, sia per quanto riguarda i numeri, sia per quanto riguarda i desideri, non fa una bella figura.
Dopo questa elementare indagine statistica, essenzialmente basata su un minimo di sincerità, ci si può chiedere il perché di tale défaillance. Forse sono i motori a essere scadenti? No: da quel poco che so, i motori delle auto, pur di fabbriche diverse, sono piuttosto simili. Il problema è la bellezza. La Fiat nel suo recente passato ha attraversato un periodo in cui si sono prodotte macchine brutte, macchine che non hanno fatto tendenza, né per ciò che riguarda il target giovanile, né per ciò che riguarda quello classico.
Veniamo a sapere che la Fiat rinnova il look del proprio marchio che identifica il gruppo: lo cambia dopo quarant’anni. Osserviamo subito che, da un punto di vista della comunicazione, è più importante il linguaggio rispetto alla cosa. Insomma, se una volta si diceva «Fatti e non parole», e questo era l’adagio di chi cercava la virtù, oggi si dice «Parole ed eventualmente fatti». Nel caso della Fiat, però, il problema è un po’ più complesso, perché la fabbrica torinese ha conosciuto la decadenza e una decadenza non si cancella soltanto con le parole. Dunque, al cambiamento del marchio è auspicabile un impegno per fare macchine belle.
Ma lo studio per un nuovo marchio che contrassegni il gruppo Fiat e la sua realizzazione rappresentano la formulazione di una grammatica espressiva che riconosce l’esigenza di un linguaggio comunicativo adatto alla sfida dei tempi. Il logo è l’immagine dell’identità. Il suo cambiamento presuppone - comunque e in ogni caso - l’abbandono di un riferimento al passato, di un suo oltrepassamento che non si dimentichi dell’origine: un’origine che tuttavia deve restare sullo sfondo. L’operazione comunicativa è rischiosa quando si abbandona una tradizione che è rimasta nel cuore della gente, perché chiudere con un’immagine che fa immediato riferimento a una riconoscibile identità significa tagliare i ponti con tutto ciò che semplifica la comunicazione. Per esempio, si pensi alla Mercedes. Quale immagine rimanda più facilmente alle macchine di quella fabbrica se non il suo logo ormai penetrato in ogni piega della nostra comunicazione? Un logo vecchio ma fortissimo nell’evocare un’identità. Cambiare logo significa rompere palesemente con una tradizione. Questo non accade alla Mercedes ma alla Fiat: un cambiamento che è sintomo di un malessere, ma anche promessa del rinnovamento. Da questo punto di vista la sfida, proprio sul piano dell’estetica della comunicazione, è estremamente delicata. Se la fabbrica torinese avesse messo sul mercato prodotti nuovi col solito marchio, l’attenzione si sarebbe concentrata soltanto sulla qualità di quei prodotti.

Ma ora il gruppo torinese avrà anche un marchio nuovo: l’attenzione non si concentrerà esclusivamente sulle macchine, ma anche sull’ambizione progettuale della Fiat che annuncia l’oltrepassamento della crisi e un nuovo futuro.

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