Quella volta che mi squillò davanti a Giovanni Paolo II

Una volta stavo con tutta la carovana del Giro d'Italia all'udienza papale. Era il Duemila, anno del Giubileo: Wojtyla voleva salutarci e benedirci, prima di vederci partire per la solita zingarata. A metà mattina eravamo tutti quanti in una sala bellissima, aspettando l'arrivo di Sua Santità. Poco prima del suo ingresso, un cardinale ci esortò con pietose parole: «Tenete il più rispettoso silenzio. Mi raccomando, i telefoni cellulari siano spenti...». «Figurati - dissi io all'amico e collega di fianco -, ci sarà sicuramente un cretino che lo farà suonare proprio quando arriva il Papa». Cinque minuti dopo il Papa entrò e un cellulare puntualmente squillò: era il mio.
Da quella volta mi sono fatto una mia teoria: il telefonino castiga pesantemente chi non lo mette al centro della propria esistenza. Io sono uno di questi: con l'aggeggio ho un rapporto di enorme gratitudine, perché troppe volte mi ha umiliato con la sua utilità. Il problema è che lo uso poco, me lo scordo nella stanza più lontana, o nella giacca appesa in guardaroba, o in macchina quando scendo per fare benzina (notata la coincidenza? Ti cercano sempre in quel preciso istante). Quella volta del Papa ero tranquillissimo perché certissimo di non averlo acceso, la mattina. Purtroppo, la sera prima non l'avevo spento. Spiegazione persino puerile: quando sono in trasferta, come tutti i padri di famiglia, lo lascio acceso per essere sempre raggiungibile.
Riconosciamolo: questo genere d'incidenti non può succedere a chi vive di telefonino. Chi vive di telefonino - tecnicamente detto telefomino - è una nuovissima figura di uomo che ha radicalmente modificato le sue abitudini e il suo habitat naturale. Costui è praticamente un arnese semovente che serve a reggere il cellulare, cui obbedisce e rende conto in qualsiasi momento del giorno e della notte. Impossibile, per il telefomino, farsi cogliere di sorpresa: il cellulare è stabilmente collegato al suo orecchio, non soltanto in modo figurato. La disgrazia può capitare soltanto in un caso: quando è impegnato sull'altra linea.
Teneri, gli americani: vogliono installare una cabina nei ristoranti, così che il telefomino possa tranquillamente ritirarsi a sbrigare le sue incessanti attività (mica ci va per mangiare amabilmente in compagnia, al ristorante: tecnicamente fa un pieno di energia, perché reggere a tutte le ore il cellulare ha un suo consumo orario). A parte la suggestione di vedere metà dell'umanità tornare al paleolitico delle telecomunicazioni, quando in trattoria arrivava il cameriere con fare discreto, sussurrando all'orecchio «La desiderano al telefono, di là vicino alla cassa»: a parte questo pittoresco ritorno alle origini, c'è da dire che la meritoria contromisura appare già abbastanza debole e inadeguata. Più che altro, pensando ad un'eventualità del genere nei nostri ristoranti, suscita raccapriccio l'idea di questi tavoli mezzi vuoti, con gente triste che copre pietosamente i piatti perché non si freddino, mentre l'altra metà della clientela è in fila fuori dalla cabina, con l'impellente necessità di fare una telefonata importantisssima.
Nessuna difficoltà ad ammettere che comunque qualcosa si debba inventare. Il nostro vivere si sta lentamente sovraccaricando di pesi eccessivi: già abbiamo seri problemi nel tenere dietro agli incalzanti affaracci nostri, da tempo ci tocca pure affrontare quelli degli altri. Una volta avveniva tutto sul ballatoio: adesso, ovunque. Al ristorante, sui mezzi pubblici (metropolitana subito santa: lì non c'è linea), in spiaggia e persino al cinema. I vicini di cellulare magari partono sommessi, si accovacciano in tremende posture a chiocciola, mettono la mano sopra per non dare nell'occhio. Ma è solo l'inizio. Dopo pochi attimi, la signora Marta o il dottor Dagoberto vengono inesorabilmente risucchiati dal dialogo telefonico e perdono completamente il controllo della realtà: è proprio in quel preciso momento che alzano la voce, gesticolano, spesso insultano, fino a farci tragicamente partecipi della loro stramaledetta esistenza. Della signora Marta sappiamo che ha un marito fetente, un piccolino che ha bisogno dei clisterini e un cane con problemi respiratori. Del dottor Dagoberto sappiamo che la segretaria comincia a ricattarlo, che quel gran bastardo del gommista gli ha rifilato un treno di seconda scelta e che lui non è così pistola da lasciare i soldi in banca.
Può bastare una cabina telefonica all'angolo del ristorante, adesso che si parla di consentire l'uso del cellulare anche sugli aerei? Per gli aerei una cabina va benissimo, magari appena oltre la porta. Per i ristoranti è già più dura. L'idea perfetta sarebbe che il telefonino fosse cortesemente pregato di andare a telefonare fuori. Ma c'è un problema: fuori, il marciapiede è già troppo affollato di fumatori. Esiste il serio rischio che fra un po', a forza di buttar fuori gente maleducata, i ristoranti diventino luoghi deserti, popolati da pochi individui tristi e perbene. Ci vuole niente, poi, perché l'oste finisca per adeguarsi, allestendo il servizio fuori e abbandonando a se stessi i superstiti marginali, barricati all'interno.
C'è poco da inventare, questa la verità. L'uso invasivo del cellulare è uno di quei problemi che andrebbero risolti solo con un minimo di decenza. O di rispetto. O di misura. Cioè non hanno soluzione. Perché ciascuno di noi è convinto di avere una buonissima ragione per non spegnerlo neppure al ristorante, mentre siamo altrettanto convinti che tutti gli altri non abbiano la minima ragione per tenerlo acceso.


E allora? Godiamoci i locali e gli spazi che la provvidenza ci concede, là dove il cellulare non prende. Godiamoceli come le ultime riserve indiane, senza farci alcuna illusione. Mai dimenticare la nuova regola del nostro costume: dove c'è campo, non c'è scampo.

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