Quelle storie alla rovescia della Milano malata di successo

N on è un caso se Milano continua a rimanere al centro dell'immaginario collettivo di scrittori e di lettori. Da «Capitale Morale» a «Capoluogo del Dubbio» il passo è breve, e il dubbio, o meglio il dilemma, è il motore narrativo di ogni romanzo che si rispetti. Ce ne sono almeno due, usciti da pochi giorni, a sostegno di queste affermazioni. «Studio illegale», firmato con lo pseudonimo Duchesne da un avvocato trentenne (ed. Marsilio, pagg. 319, euro 17) è un lavoro brillante che sta raccogliendo un ampio consenso di pubblico. È anche in classifica, il che se non altro ci conferma che il mercato librario milanese ha un peso determinante sugli equilibri nazionali. Perché è chiaro che questo libro sia partito bene proprio da Milano, dove è in gran parte ambientato, e soprattutto perché mette ironicamente il dito in una piaga che la classe dirigente conosce bene: l'avidità di guadagno e di successo ci ha intontiti, ha anestetizzato la nostra emotività, ci ha riempiti di nevrosi e di desideri impossibili da soddisfare. Il protagonista, Andrea Campi, lavora in uno studio legale «d'affari» e ogni suo talento è finalizzato alla scaltrezza «Sono un avvocato, cazzo. Io fondo la mia vita sulla mancanza di fiducia negli altri». Il libro è stato lanciato da un blog: studioillegale.splinder.com, molto visitato dagli avvocati che nuotano in queste stesse acque. In molti si sono riconosciuti: le dinamiche perverse tra colleghi, il sessismo, lo spreco, la città che continua a ruotare impazzita, tra una cena al Nobu o al Just Cavalli o all'Old Fashion o all'Hollywood (posti quasi intercambiabili), la testa che si ferma solo a distrarsi sull'Inter o sul Milan, la confusione intellettuale e ideologica, sostituita dal conformismo consumistico. Quello che conta è la Porsche, le vacanze di Natale si fanno più volentieri con una escort che con la moglie, i figli sono accessori, o alibi. Il successo e la carriera sono ancora misure assolute, come negli anni Ottanta, ma la differenza è che qui, adesso, incombono altri spettri. L'ascesa non è così scontata. Il cinismo mostra i suoi limiti. Non è difficile individuare l'enorme studio legale (cinque piani di uffici) da cui l'autore trae spunti e descrizioni. Non facciamo nomi, per ovvi motivi, ma qualunque avvocato in città saprà indicarvelo. Soprattutto, molti avvocati si riconosceranno nel giovane e frastornato Andrea Campi.
Allo stesso modo Fabio Landini, nato negli anni Cinquanta, descrive gli alti e bassi, le scelte e le crisi di un finanziere abituato a baloccarsi con il denaro degli altri, e ritrovatosi all'improvviso di fronte a un colpo crudele della vita: una grave malattia della figlia. «Una cosa che non sai» (ed. Carte Scoperte, pagg. 237, euro 17,50) è una vicenda di redenzione, o forse di risveglio da un'illusione tipica delle società del terziario avanzato: che con i soldi si raddrizzi sempre tutto. Anche nella Milano di Landini non mancano corse a fregare il prossimo, sesso mercenario, ristoranti inutili e costosi. Anche qui si affaccia un'urgenza etica che finisce per mettere in dubbio ogni scelta professionale.
Entrambi i libri contengono una prospettiva internazionale. Vie di fuga forse più sperate che reali, verso Londra, verso Dubai, verso altre cattedrali del consumo.

Ma nessuno può mai sfuggire a se stesso. In questo senso le grandi città, quando diventano protagoniste dei romanzi, partono come sfondo sul quale i personaggi rischiano l'anonimato, ma finiscono per orientarli nella strada che li conduce a ritrovarsi.

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