Questa volta le monetine toccheranno ai magistrati

Questa volta le monetine rischiano di cadere sulle parrucche dei giudici. L’impressione è che la maggioranza degli italiani sia stanca di questo orologio togato che segna i tempi della politica. Qualcosa è cambiato.
Sono passati più di sedici anni. Era una sera di fine aprile, il 30. Bettino Craxi guarda il mondo che sta cambiando. Quando esce dall’hotel Raphael sente le urla, non si ferma. È una rivoluzione, la piazza chiede sangue, un corpo da sacrificare, un volto per sfogare un vago senso di giustizia e frustrazione. Le monetine cadono, scagliate con rabbia su Craxi, sull’Italia, sulla politica, sul passato, su un secolo di sogni e ideologie. Gli uomini in toga sono i nuovi signori di questo angolo di terra. Tutto, quel giorno, è nelle loro mani. Sono gli arbitri del destino. Gli avvisi di garanzia sono la carta nera pescata nel mazzo. È il segno della disgrazia, della condanna, la fine della vita pubblica. È il pollice verso dell’imperatore. Chi la riceva sull’uscio della porta suda, trema, è finito, sconfitto, disperato. Ve li ricordate quegli anni? La giustizia sceglie i tempi della politica. Tu sì, voi no. Sul terreno restano le carcasse dei partiti morti, la vecchia balena bianca e gli altri. L’ultimo avamposto del vecchio potere è lo spuntone della «cosa», ciò che resta di Botteghe Oscure, quella quercia bonsai piantata sulla falce e martello, sepolta dalle macerie del Muro. Questi erano i tempi. Il palazzaccio di Milano si fregiava del titolo di capitale morale. Onnipotenza. Gli italiani, allora, erano tutti con i pubblici ministeri. L’accusa è un indice puntato. Tutti vogliono cambiare e i giudici sono gli eroi senza macchia e senza paura. I più saggi un po’ si stupiscono: ma com’è che se ne sono accorti solo adesso del cancro? Altri sussurrano che in fondo queste ruberie uno come Pannella le denunciava da anni. Non importa. Le toghe sono sovrane e il popolo è con loro.
Tangentopoli ha luci e ombre. È una stagione che la storia non ha ancora digerito. Qualcuno parla di stagione rivoluzionaria, che decapita una classe dirigente. Per altri è semplicemente una resa dei conti, una sorta di armageddon politico, il trionfo della giustizia dopo anni, decenni di mani sporche, la parola fine su una prima Repubblica già macera e marcia. L’unica cosa certa è che da allora giustizia e politica si incrociano spesso e si fanno male. Prodi è caduto meno di due anni fa per le incursioni di un paio di magistrati napoletani. Mastella, Guardasigilli, viene portato alla gogna. Il governo cade e lui si salva. Le sue disavventure giudiziarie finiscono nel retrobottega. Nel ’94 Berlusconi viene lasciato solo sotto il tiro delle procure, l’offensiva della piazza sindacale sulla riforma previdenziale fa il resto. Ribaltone e si ricomincia daccapo. È questa fatica di Sisifo della politica che l’Italia non sa più sopportare. Questi quindici anni di voti inutili, ribaltati da qualcosa che arriva dal cielo. Gli elettori chiedono: risolvete i problemi. Ma per un motivo o per l’altro nessun governo riesce a governare. In tutti questi anni la politica ha cercato di riaffermare la sua centralità. Non c’è riuscita. Nel ’98 Oliviero Diliberto, ministro della Giustizia, parlava un intreccio perverso tra magistratura e politica, che va assolutamente spezzato. Diliberto, non un berlusconiano. Luciano Violante, dieci anni dopo, segnalava: «Magistrati troppo potere». E diceva che le toghe costituiscono l'ossatura amministrativa dello Stato. «Sono la nostra Ena, cioè quello che in Francia è la Scuola nazionale di amministrazione. Si pensi al ruolo dei magistrati ordinari all'interno del ministero della Giustizia, nelle strutture del Csm, nei gabinetti e uffici legislativi degli altri ministeri, nelle Commissioni parlamentari». Sono un potere forte e diffuso. Ma il «partito dei giudici» ha dilapidato il capitale raccolto con tangentopoli. Resta solo la forza di una minoranza compatta ed elitaria, che ha una sola missione politica: cancellare il «Caimano». L’antiberlusconismo è l’ultima ideologia, quella rimasta dopo il nulla. Non è maggioranza, ma il suo peso è forte, si fa sentire. Ha intellettuali, testimonial, cecchini, simpatizzanti e un partito, che ogni giorno ruba campo al Pd. Questa è la scommessa di Antonio Di Pietro, l’uomo che più di tutti rimpiange e santifica la stagione di Mani pulite.
Tutto questo però ha cambiato la percezione che gli italiani hanno della magistratura. Non più potere neutro, ma un protagonista fuori copione. Tangentopoli è stato un momento eccezionale e ha avuto l’appoggio dell’opinione pubblica. Ma se diventa un’ideologia con un chiodo fisso non crea consenso, ma entra in modo illegittimo nell’arena politica. Il problema per Di Pietro e i «giacobini» è che non sono maggioranza. Non hanno voti.

L’alleanza con la sinistra tradizionale non funziona. Sono due negozi sulla stessa strada, ma il numero dei clienti non sale, anzi scende. E da tempo guardano alle elezioni come a un disgrazia. Le monetine di Craxi sono scadute.

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