Raffaello torna a Urbino

La città di Urbino, la prima città del Rinascimento italiano, con grande coraggio e piena consapevolezza della sua tradizione intende, a fianco dello straordinario Magistero espresso dalla sua libera Università e di altre importanti istituzioni culturali come l’Accademia di Belle Arti e l’Accademia Raffaello, estendere o riabilitare il suo primato, riconosciuto nel mondo, anche con la produzione di attività culturali di respiro internazionale. Mi sembra una giusta ambizione, è tale richiedere il contributo di tutte le migliori energie dello Stato, nel senso più alto, senza limitazioni o preconcetti tipi di una visione provinciale, autopunitiva ovvero «devoluta». Per Urbino, in Italia come nel mondo, non può valere il principio «piccolo è bello» che dà la misura di una protezione, come un ortus conclusus difeso dal mondo. Urbino è una città aperta, la città dell'utopia che, nell'architettura di Palazzo Ducale, si è fatta realtà. Ma Urbino è anche una grande provincia che non soffre di condividere la propria così distinta identità con la vicina e tanto diversa Pesaro (la cui segreta bellezza, anche nell'architettura, esprime un'altra sublime bellezza ideale realizzata, la Villa Imperiale). E frutto del vedere grande, a Pesaro, è stata l'invenzione del più grande festival musicale italiano, sul modello di quello mozartiano di Salisburgo, il Rossini, opera Festival Roff, appuntamento di prestigio internazionale. E internazionale è anche, sul confine della vicina Rimini, altra capitale dotata, oltre che di superbe memorie romane, anche di un altro assoluto capolavoro di architettura rinascimentale, il Tempio Malatestiano, il centro ricerche Pio Manzù che, sui versanti della scienza, della politica, della ricerca, della medicina, ogni anno dialoga con Urbino nel progetto di una «città ideale» della coscienza. In questo clima di armonia non appare sproporzionato allo spazio fisico e mentale di questa città stato, il progetto, nato per il mio stesso forte impulso, nel Forum delle idee voluto dal Presidente della Provincia Palmiro Occhielli, di realizzare a Urbino la grande mostra del suo più importante figlio, il pittore italiano e universale per eccellenza: Raffaello. La timidezza di istituzioni dalla mentalità localistica, il continuo abuso di potere di funzionari pubblici che ritengono che le opere d'arte siano di loro privatissima proprietà e non possano contribuire al più ampio disegno di una idea dell'Italia, come ripensamento e esaltazione della sua grande storia, senza retorica, hanno reso fino ad oggi questa impresa, non solo impossibile (o giudicata tale) ma addirittura impensabile. È stato però possibile realizzare, senza alcun fondamento, altro che campanilistico, la bella mostra di Masaccio a San Giovanni Val d'Arno dove il pittore è nato. Urbino che oggi come ieri è altro da San Giovanni Val d'Arno, non dovrebbe neppure sperare una analoga, e meritata, opportunità.
Ce n'è un motivo? No.
Non dimentichiamo che, negli anni della sua più straordinaria vicenda artistica, Piero della Francesca lasciò ad Urbino, nella chiesa di San Bernardino che contiene ancora l'altare per accoglierla, la sua più compiuta opera, rubata da Napoleone per Brera; e che essa, ormai da duecento anni, non è più stata riportata, anche temporaneamente, nella sua sede originale. Ce n'è una ragione? No.
La ragione è, in realtà, nell'assoluta mancanza di senso dello Stato e di idea della nazione dei nostri governanti che, non avendo un piano per valorizzare in modo autentico ed efficace il nostro inesauribile e mirabile patrimonio artistico, hanno di fatto accettato il ricatto e la servitù di funzionari gelosi e isterici che sequestrano le opere d'arte non consentendo che esse, se non minori o insignificanti, ritrovino il loro naturale contesto, le loro profonde ragioni storiche. In questo c'è un grande equivoco. In una nazione piccola e frammentata, divisa, gelosa e miope. Immaginiamo che il Louvre decida di fare una grande mostra di Raffaello (in realtà, qualche mese fa, realizzata dal National Gallery di Londra, e senza particolari difficoltà, e con grandi risultati). La Francia dell'arte è il Louvre con una potente forza di attrazione centripeta. Individuato lo spazio nel grande museo, la mostra potrebbe ottenere numerosi prestiti e trovare una sistemazione nel percorso della storia dell'arte universale che si svolge di sala in sala. Ora, in Italia, non vi è il Louvre e neppure gli Uffizi hanno collezioni così varie e prestigiose; ma dobbiamo metterci nel punto di vista di chi, stando in alto e governando, vede l'Italia come un unico e molto più grande, ricco e variegato, Louvre. Da questo punto di vista centrale ed apicale, Urbino è una delle stanze di questo museo ideale e totale. Non si sottraggono dunque opere a Milano, Roma, Firenze, Brescia, ma si dispongono, in accordo con la comunità internazionale, in Palazzo Ducale ad Urbino, come in una delle sale di quel grande museo ideale che è l'Italia. Lì, e per mille buone ragioni che innalzino Urbino alla sua dignità universalmente riconosciuta, vanno esposte le opere di Raffaello. Questo progetto, o meglio, questa «visione», sono non solo convenienti a Raffaello e Urbino ma all'Italia in un piano organico, etico e concettualmente alto della sua proiezione nel futuro come luogo di civiltà e di bellezza, come è sempre stato percepito, e meglio per i visitatori stranieri del grand tour che dagli stessi italiani. In una visione europea le distanze si avvicinano. Così come si è, con metodo illuminato, concepita una mostra Siena-Roma, allo stesso modo si può immaginare Urbino-Roma e ogni parte d'Italia come parte di una unità. Stanze, appunto, di un grande museo, e, d'altra parte, se non si vuole pensare a una punizione per Urbino, o una sua minorità, inaccettabile, non si intende perché Forlì possa celebrare il «suo» pittore con la grande mostra di Marco Palmezzano, per la quale si sono fatte muovere grandi pale d'altare e tavole da ogni parte del mondo; e Fabriano possa celebrare, con i soldi di Merloni, il «suo» pittore con la mostra di Gentile facendo muovere tavole da ogni parte del mondo. E Urbino perché non dovrebbe? O dobbiamo accettare i pregiudizi che Raffaello, perché è più noto di Gentile da Fabriano, valga di più, sia più prezioso, meriti maggiore prudenza. Lasciando naufragare un grande progetto per la visione meschina, gelosa, di direttori di musei e funzionari di sovrintendenze, Provenzano sì e Raffaello no, con il Ministero, cioè lo Stato, impotente e succube davanti a capricci e abusi d'ufficio. Ne abbiamo già avuto un esempio con la grande mostra di Caravaggio e l'Europa a Milano, che pur avendo una grande funzione popolare ed educativa con oltre cinquemila visitatori al giorno, non ha potuto contare sulla Cena in Emmaus di Brera, un museo accentratore e ladro, orrendamente allestito da Gregotti, sempre in sistemazione e con afflussi molto inferiori alla mostra di Palazzo Reale, come è logico.

Brera è ad un quarto d'ora a piedi da Palazzo Reale, una distanza incolmabile per la superbia, la mancanza di senso dello Stato e il grottesco protezionismo di chi la dirige, con mani libere anche rispetto al Ministro che ha invano promesso (il cattolico Buttiglione, peccando contro l'ottavo comandamento) di far arrivare il quadro ad una mostra voluta dal Ministero e promossa da un comitato nazionale. Ma si sa, c'è la devolution e c'è sempre stata quella dei cervelli, senza che il potere, soprattutto quello dell'intelligenza, perseguisse il bene dei cittadini e dell'Italia.

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