Il ragioniere bruciato da Telecom dopo 7 anni si rimette in gioco

Milano - «Dove eravamo rimasti»? Nello spirito e nella determinazione che Roberto Colaninno ha messo in queste ore di trattativa per arrivare ad Alitalia c'è un filo rosso, lungo 7 anni, che non si è mai spezzato: erano i giorni caldi dell'estate del 2001 quando, con un blitz, i suoi soci bresciani nella Telecom, guidati da Emilio Gnutti, vendettero la società a Marco Tronchetti Provera. Colaninno non ne voleva sapere di interrompere così un'avventura iniziata l'anno prima con la più ardita Opa di tutti i tempi, quella su Telecom Italia, proprio quando la società soffriva, non riuscendo a trovare il proprio equilibrio finanziario mentre cambiava il mondo delle tlc. Non voleva mollare, quasi fosse un'ammissione non di colpa, ma di qualcosa di peggio per Colaninno: essere bollato come uno speculatore. Un marchio che rischiava di cadergli addosso in pieno, visto che vendendo le sue azioni Telecom ha incassato un guadagno lordo stimato nell'ordine dei 300 milioni. E visto che non era riuscito a stabilire un buon feeling con il mercato.

Mantovano, 65 anni, diplomato in ragioneria, sposato con due figli (Matteo, siede da poco in Parlamento, ministro ombra per il Pd), Colaninno ha sempre rifiutato l'etichetta del finanziere spregiudicato. E con una parte del ricavato di Telecom, spezzato ogni legame con i bresciani di Hopa, è ripartito dalla Piaggio, rilevata nel 2003 sull'orlo del fallimento dopo una lunga trattativa con le 28 banche creditrici di 580 milioni di debiti, e poi portata in Borsa. Sono questi gli anni in cui ha consolidato la propria reputazione imprenditoriale tessendo relazioni internazionali con fondi, banche e investitori americani, asiatici, arabi ed essendo tra i primi ad aprire fabbriche in India e Cina.

Sono gli anni in cui Colaninno ha stretto i legami con manager e banchieri con i quali fa ormai squadra fissa: il finanziario Luciano La Noce, l'industriale Rocco Sabelli, il banchiere Ruggero Magnoni (uno degli «gnomi» della Lehman Brothers dei tempi d'oro) e Gaetano Micciché, il capo della finanza d'impresa di Intesa Sanpaolo conosciuto nella trattativa per la Vespa. Ma questi sono anche gli anni di una sorta di «traversata nel deserto», in attesa di ricominciare da dove aveva interrotto. Piaggio andava bene come storia di successo. Ma non poteva finire lì.

Per questo Colaninno ha iniziato a cullare l'idea di Alitalia prima che chiunque lo immaginasse: sono almeno due anni che ci pensa, spinto da un combinato disposto di curiosità, coraggio e rivalsa. Così il 16 aprile del 2007, a New York per presentare Piaggio agli investitori, ai cronisti che gli chiedevano per la prima volta se fosse interessato all'Alitalia, Colaninno risposte: «Alla larga». Sorridendo, sereno e solare, con i suoi occhi sempre svegli, mentiva. Ma solo a metà. «Alla larga» Colaninno sarebbe sempre rimasto da Alitalia in mancanza di due requisiti vitali: che si facesse come voleva lui, e che in gioco entrasse un partner industriale estero. C'è voluto un altro anno e mezzo perché le strade del manager padano e Alitalia si incontrassero per davvero. Ma alle sue condizioni, appunto.

E il cerchio si chiude con Al-Italia dopo Telecom-Italia; e con Berlusconi dopo D'Alema.

Proprio nei giorni in cui i bresciani spariscono dalla scena e la Hopa, sull'orlo del fallimento, passa di mano, Colaninno torna a un ruolo centrale nell'economia italiana, al vertice di un'altra società «di sistema». Proprio lì «dove eravamo rimasti».

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