Il regime birmano agli sfollati: «Inutili gli aiuti, mangiate rane»

I militari sgombrano a forza i campi allestiti dall’Onu e obbligano la popolazione a tornare nei villaggi distrutti

«Tornate a casa, dimenticatevi gli aiuti internazionali, nutritevi di rane e pesci». La condanna a morte la pronunciano i giornali di regime, la eseguono subito dopo i militari birmani. Da ieri otto campi allestiti dalle Nazioni Unite in quel Delta dell’Irrawaddy devastato tre settimane fa dal ciclone Nargis sono vuoti, abbandonati. Da ieri migliaia di disperati privi di cibo, acqua e medicine vagano nel nulla sotto la minaccia dei fucili dell’esercito. È ennesima atrocità di una giunta birmana pronta a sterminare il proprio popolo pur di impedire interferenze straniere, pur di non allentare il giogo e l’isolamento imposto al paese.
Il primo a lanciare l’allarme è Teh Tai Ring, un funzionario dell’Unicef che descrive otto campi già «completamente vuoti», denuncia le mosse del governo «intervenuto senza preavviso per spostare tutti gli sfollati» e racconta di «gente priva di tutto costretta a ore di marcia per tornare ai villaggi distrutti». Sembra un racconto irreale, l’evocazione di un fantasma degno della rivoluzione culturale cinese o della Cambogia nazional comunista di Pol Pot. Purtroppo è un resoconto tragicamente reale e concreto. Come lo sono le immagini e le testimonianze che, nelle stesse ore di ieri mattina, arrivano da Rangoon. Lì i gendarmi del dittatore Than Shwe svuotano una chiesa cristiana, buttano in strada le 400 anime che l’affollano, fanno piazza pulita dei loro stracci, costringono i poveretti a incamminarsi verso quel delta dell’Irrawady da cui sono fuggiti tre settimane fa. «Ma quella gente - spiegano i pastori battisti della minoranza karen - non ha nessuna casa a cui tornare, i loro villaggi sono stati spazzati via, l’acqua dei canali è contaminata e le piantagioni di riso distrutte... senza aiuti non sopravviveranno più di una settimana».
Poco importa. Lassù a Naypyidaw, l’inaccessibile capitale fortificata celata nel cuore della giungla, il tiranno Than Shwe e la sua schiera di aruspici e ciarlatani hanno già deciso. Il momento degli aiuti internazionali si è concluso. Il popolo birmano deve tornare sotto la legittima tutela dei suoi tiranni, guardare eventualmente solo all’aiuto della grande madre Cina, la vorace protettrice ripagata con diamanti, gas e altre materie prime. New Light of Myanmar, la gazzetta del regime, l’ha, del resto, già annunciato. «Il popolo è capace di risollevarsi da solo dai disastri naturali e sa far a meno dell’assistenza internazionale». E per chi osa anteporre la scusa di fame e privazioni all’indispensabile autarchia decisa dal regime ecco la dieta consigliata. «La gente può facilmente mettere nel piatto del pesce pescato nei canali e nelle risaie oppure catturare le rane che, tutti sanno, abbondano nel periodo del monsone».
In quelle risaie e in quei canali galleggiano e marciscono da tre settimane i cadaveri di decine di migliaia di dispersi, ma poco importa. Sono dettagli, voci disseminate dagli stranieri.

«Alla nostra gente per sopravvivere basta lo sforzo individuale: nessuno qui - spiega New Light of Myanmar - ha bisogno delle barrette di cioccolata regalate dalla comunità internazionale». Dunque tutti indietro, tutti a casa, tutti di nuovo nei canali putrescenti. Restituiti alla morte, ma immuni dal nefasto contagio straniero.

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