Carlos Slim vive in una villa con sei camere da letto nel quartiere Lomas de Chapultepec di Città del Messico. Non sono neppure tante per chi non ha abbastanza ore per tessere la sua ragnatela di affari.
I suoi genitori sono partiti dal Libano nel 1902. Sono cristiani maroniti. Arrivano in Messico e aprono un negozio dove si vende di tutto, dal latte ai chiodi. È un bazar di quartiere. Ci campano bene e risparmiano abbastanza da mandare il figlio all'università. Carlos si laurea nel 1961 in Ingegneria civile. La prima scommessa è sulla casa. Costruzioni. Qui i primi soldi, poi si prende tutti i mercati possibili: ricambi auto, alluminio, compagnie aeree, prodotti chimici, tabacco, produzione di cavi e fili, carta e imballaggi, estrazione di rame e minerali, pneumatici, cemento, vendita al dettaglio, hotel, stampa, distributori di bevande, telecomunicazioni e servizi finanziari. È il maggiore azionista del New York Times. Ha dedicato un museo con 70mila capolavori alla moglie Soumaya e dicono che non abbia mai usato un computer, ma conserva tutti i suoi dati su una serie di quaderni scritti a mano. Forse è una leggenda. A un certo punto della sua vita la sua ricchezza era maggiore, in un incrocio della storia, di quella di Marco Licinio Crasso, uno che per tutta la vita ha prestato soldi a Giulio Cesare.
Questa è una delle storie che si trovano nelle pieghe di un saggio che non risparmia sorprese: Come dèi tra gli uomini, una storia dei ricchi in Occidente (Laterza, pagg. 516, euro 28). L'autore è Guido Alfani, professore di Storia economica alla Bocconi. Questo lavoro, profondo e importante, non è però la storia solo personale di chi ha abbastanza oro da non riuscire neppure a contarlo. È uno sguardo molto più ampio, che arriva a toccare i singoli individui, ma si sofferma sulla casta o classe degli opulenti nel corso del tempo. Cosa significa essere ricchi? Chi sono? Come ci si diventa? Come cambia l'idea di ricchezza? Quanto è ampio o ristretto quel gruppo di fortunati? E più di ogni altra cosa si guarda alla forbice della diseguaglianza. Tutto questo senza però rivendicare soluzioni morali o ideologiche. Non è un saggio contro i ricchi ma sui ricchi. Tiene conto degli studi di Thomas Piketty sulla concentrazione attuale della ricchezza, ma non demonizza il capitalismo. Non lo fa perché le dinamiche della ricchezza non sono legate solo a quelle del mercato.
I ricchi c'erano prima e non sono diventati più ricchi solo grazie alle imprese globali. La questione è un po' più sottile e ha a che fare più con la «cultura», come modo di pensare e vedere il mondo, che con gli affari.
Il sospetto che si stia formando una aristocrazia globale è concreto. Il paradosso è che assomiglia come struttura alla ricchezza precedente alla «rivoluzione dei mercanti», quella che si sviluppa soprattutto nelle città italiane alla fine del XIII secolo (e che comincia due secoli prima). Quello che manca adesso è la dinamicità e la voglia di libertà, di «società aperta», di quei devianti avventurosi che scappavano dalla logica feudale per garantirsi il diritto di cercare la propria felicità. È il popolo che «non ara, non semina, non vendemmia», osserva stupito uno scrittore del XI secolo riferendosi ai veneziani. È il «mercator ergo peccator» a cui Tommaso d'Aquino indica la strada per la redenzione. La ricchezza non si ostenta. È vergognosa. È una tentazione. È la strada che senza il perdono porta all'inferno. Saranno i calvinisti, secondo Max Weber, a leggere nel successo la grazia di Dio. L'etica cattolica invece si basa sul giusto profitto, quello che viene dal lavoro e non dal rischio, dove non si lucra sugli interessi per non finire nel girone degli usurai. Questa però resta la teoria. La pratica ti dice che si diventa ricchi perché già lo si è o per un'ossessione che dura una vita o per un colpo illuminato che ti cambia la vita, per coraggio o per giri loschi, per ingegno o per un furto. Non è poi così importante come si entra nella ristretta cerchia dei ricchi. L'importante è mostrare, anche moralmente e soprattutto fingendo, di meritare un posto nella aristocrazia del denaro. L'avere pretende l'apparenza. L'avere è una maschera.
Tutto vero, eppure i ricchi non sono al di là del bene e del male. Ci sono tre aspetti che ricorrono nelle storie di Alfani: reputazione, intrapresa e magnificenza. Il caso ha regalato ai posteri il prezioso archivio (130mila lettere commerciali e 500 libri contabili) di Francesco Datini, l'incarnazione del mercante trecentesco. Il padre, venditore al dettaglio di generi alimentari, gli lascia una piccola casa, un pezzo di terra e 47 fiorini. Datini vende tutto per 150 fiorini e lascia Prato per Avignone, lì dove c'era la corte papale. Datini è un innovatore nella pratica del commercio. È razionale e audace. È lui che inventa il sistema delle società multiple e legalmente distinte, ma aveva anche l'abitudine di assicurare la sua merce. Il consiglio che lascia al figlio è però di non perdere mai la faccia. Il mercato si basa sulla fiducia. Se hai fama di malfattore e di disonesto nessuno comprerà mai la tua merce.
Poi c'è la paura, quella di perdere ciò che hai conquistato grazie all'ingegno, l'impresa che ti viene scippata, l'invenzione rubata. È l'ossessione di Richard Arkwright, l'inventore del filatoio meccanico, alla base del water frame, che di fatto è il passo iniziale della prima rivoluzione industriale. Arkwright cercò in tutti i modi di proteggere il suo brevetto universale. Non sempre ci riuscì.
Cosa significa magnificenza? No, non è solo voglia di apparire. È anche questo, certo, ma ci può essere il desiderio di donare alla città parte della fortuna. È l'ansia di immortalità di Lorenzo il Magnifico. È una sorta di narcisismo generoso.
Non è facile fidarsi dei ricchi quando entrano nella vita pubblica, ma bisogna poi riconoscere che lasciano alla repubblica e ai posteri i segni della bellezza universale. Non resta che chiedersi come verrà raccontato Elon Musk tra 500 anni. «Chi vuol essere lieto, sia, di doman non c'è certezza».
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